Senza nessuna pietà

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Mimmo Santilli (Pierfrancesco Favino) è un tipo taciturno.
A uno sguardo distratto potrebbe sembrare un uomo tranquillo, ma in realtà dentro ha in corso una guerra tra l’ordinaria vita da muratore che vorrebbe continuare a fare e i lavoretti da picchiatore che, con sempre maggiore riluttanza, è costretto a svolgere per lo zio usuraio (Ninetto Davoli).
E, per quanto Mimmo sia stanco di questa doppia vita fatta di cantiere al mattino e imprenditori da “punire” alla sera, non ha ancora trovato il modo e il coraggio di tirarsene fuori.
Come spesso accade in questi casi, a far precipitare le cose ci si mette una donna, nella persona di Tania (Greta Scarano), giovane prostituta che Mimmo ha il semplice compito di andare a prendere e accompagnare in una villa dove è in corso un festino.
Un lavoro all’apparenza piuttosto facile, durante il quale però tutto va storto. Qualcosa infatti, forse l’innocenza che il trucco pesante e i tacchi alti della ragazza non riescono a mascherare del tutto, suggerisce a Mimmo che non può più stare a guardare e che è arrivato anche per lui il momento di reagire.
E che forse, salvando Tania, potrebbe finire per salvare anche un po’ se stesso.



Per la sua prima volta dietro la macchina da presa, l’attore Michele Alhaique (Che bella giornata, Qualche nuvola), decide di affidarsi al più classico dei canovacci noir e dirige, con stile secco e conciso, questa storia di ordinaria redenzione, ambientandola nel grigiore di una Roma tutta periferica, talmente livida e spoglia di qualsiasi riferimento iconico da diventare quasi un sobborgo dell’anima più che un luogo reale.
E’ in questo limbo, nero come la pece, che si muove pesantemente un Pierfrancesco Favino eccezionale, talmente innamorato del progetto da ingrassare venti chili per vestire al meglio i panni di questo triste loser, creando un personaggio a metà strada tra la catatonia del Travis Bickle di Taxi Driver e l’ingombrante fisicità di Marv, il gigante buono interpretato da Mickey Rourke in Sin City.
Alhaique sembra invece ispirarsi visivamente a un altro film interpretato da Rourke, The Wrestler, e, in modo non dissimile da Aronofsky, riprende spesso Favino di spalle, quasi braccandolo, come a far percepire allo spettatore il medesimo senso di oppressione che grava sul protagonista per tutta la durata del film.
Capita che il capolavoro di Aronofsky torni alla mente più di una volta in realtà, forse perché negli occhi spaventati di Mimmo di fronte ad un mondo che non capisce appieno e che sa benissimo di non poter cambiare, c’è lo stesso senso di rassegnata inadeguatezza che animava il vecchio wrestler Randy “The Ram”.
E’ davvero notevole il tentativo di Favino, attore ormai dotato di una riconoscibilità immediata, di nascondersi all’interno del personaggio, operando sui diversi piani della performance in maniera antitetica: se a livello fisico infatti l’attore lavora per accumulo (i chili in più, la folta barba) fino quasi ad azzerare in chi assiste la memoria dei suoi ruoli più noti, sul versante della recitazione è invece la sottrazione a fare da padrona e tutto, sia in termini gestuali che dialettici, è ridotto ai minimi termini.

Detto ciò è giusto anche notare come Senza nessuna pietà – presentato una manciata di giorni fa alla Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Orizzonti – non sia esente da difetti che, per lo più, risiedono in una sceneggiatura che non osa mai mettere in discussione la rigidità di uno schema ormai piuttosto abusato (sostanzialmente la parabola cristologica applicata al noir) che viene seguito in maniera pedissequa dall’inizio alla fine.
Non c’è un solo snodo narrativo nel film in cui le cose vadano diversamente rispetto a come, sin dall’inizio, si capisce che andranno.
E ciò spiace, in primis perché il noir in Italia è bazzicato poco e, quando lo si fa, i risultati sono in genere tutt’altro che degni di nota, ma soprattutto spiace perché è evidente che dietro a questo piccolo film ci siano passione, impegno e la precisa volontà di proporre un’idea di cinema poco accomodante che riesca a fare del “genere” senza strizzare troppo l’occhio alle serie TV di casa nostra.
Merito anche di un cast che, oltre al già citato Favino, vanta nomi di assoluto livello, a partire da un ambiguo e viscido Claudio Gioè fino ad Adriano Giannini, quest’ultimo davvero coraggioso nella scelta di interpretare un personaggio così sgradevole.
Se questo stesso coraggio avesse portato a trasgredire un po’ di più in termini di scrittura, ora staremmo salutando un’opera prima di assoluto livello.
Il risultato finale invece assomiglia di più a un compito in classe.
Privo di errori formali, è vero.
Ma pur sempre un compito.

Voto 6

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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