Blackhat

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Dal ricettatore in cerca di rivalsa di Strade violente al guerriero pellerossa d’adozione de L’ultimo dei mohicani, dalle due facce della medaglia di Heat all’ultimo degli idealisti di Insider, arrivando alla tragica malinconia del Dillinger del recente Nemico pubblico, le figure portanti dell’universo di Michael Mann sono tutte accomunate da un insanabile senso di alienazione e da un rassegnato destino di desolazione, dal distaccamento progressivo da una realtà diventata ostile e incomprensibile.



Era quindi soltanto questione di tempo che il pessimismo manniano si estendesse alla dimensione tecnologico-informatica, la declinazione più moderna e metafisica di quella solitudine che non è solo componente essenziale della sua concezione dell’Uomo, ma che riconferma l’autore di Manhunter come l’erede più fedele del patrimonio archetipico di genere che rappresenta il nucleo stesso dell’identità cinematografica statunitense, di quel linguaggio e di quella mitologia definitivamente codificatisi con le fondamenta gettate dai Ford e dagli Hawks, probabilmente l’unico superstite di una generazione di puri – quella dei Cimino, dei Milius, dei Carpenter – spazzata via dagli inevitabili venti di rinnovamento e di decadenza.

A differenza dei suoi tre colleghi di cui sopra, Mann ha però saputo contrapporre alle radici saldamente tradizionali del suo immaginario una costante riflessione sul mezzo e un pionieristico aggiornamento delle tecniche di messinscena che non solo gli hanno permesso di mantenersi in sella all’establishment, ma che hanno per molti versi anticipato e perfezionato stilemi e formule di molta produzione mainstream contemporanea, provocando quel cortocircuito di fattura avanguardistica e di spirito passatista che ha reso la sua filmografia una sequenza pressoché ininterrotta di classici istantanei.

Con il nuovo Blackhat, come detto, lo scenario si fa astratto fino allo sdoppiamento, scisso fra i segni concreti prestabiliti della categoria e un teatro dell’azione nascosto nell’incorporeità del virtuale, ma non è la sola bipartizione a costituire il fulcro della pellicola Punti di riferimento dell’abituale melange di ciò che è stato e di ciò che sarà sono questa volta l’Occidente, l’Oriente e il loro modo di concepire il discorso filmico, risultando in una sorta di western decentrato che da un lato rimane ancorato ai tratti canonici del thriller e del noir di matrice euro-americana (il fatalismo di Lang e l’esistenzialismo di Melville, su tutti) e dall’altro subisce il fascino – e il potenziale commerciale – di quella scuola hongkonghese che, pur vista fino a poco tempo fa con diffidenza da Mann in persona, ha riunito sotto l’egida della Milkyway Image i più interessanti proseliti di quel particolare modo, crepuscolare e disilluso, di rielaborare l’action-movie.

E a rendere Blackhat una grande occasione sprecata è forse proprio quella consueta, smisurata ambizione mal supportata da un progetto non all’altezza, la disparità fra un lavoro di regia che vorrebbe – riuscendoci in buona parte – ristabilire l’integrità formale del cinema di consumo e un soggetto sostanzialmente debole e generico alla base, come una melodia banale che tale resta pur se rivestita da un arrangiamento straordinario, uno spunto blando che evolve in uno sviluppo appesantito da spiegoni e chiacchiere tecnicistiche che finiscono per annacquare la potenza immaginifica dell’insieme e, specie nel corso dei frequenti, tediosi duelli di fronte al monitor, per frenarne l’incedere dinamico, esasperato e intensificato dall’impiego stavolta integrale e allo stato dell’arte del formato digitale.

Se i temi ricorrenti della filosofia di Mann, dall’amicizia virile che scavalca le convenzioni alla centralità del codice morale, dall’inesorabilità della sconfitta – suggerita con intelligenza nel bell’epilogo – alla passione romantica come unico, fragilissimo riparo, riescono ancora a commuovere, non sono sorretti da personificazioni memorabili, da un antieroe, più che enigmaticamente stoico, semplicemente legnoso affidato al fisico granitico di Chris Hemsworth a un love interest, la cinese Tang Wei, vittima della propria ininfluenza nell’economia della storia e della totale mancanza di chimica con la sua controparte maschile, dal melting pot di supporto capitanato da Viola Davis, un corollario piuttosto elementare e formulaico di rimpianti e di debolezze, al deludente villain (il belga Yorick van Wageningen), certo più credibile del mitomane di derivazione bondiana di turno, ma non per questo abbastanza degno di nota.

Spesso e volentieri, soprattutto in corrispondenza dei silenzi dei personaggi e dello spalancamento degli spazi, si torna a respirare autentico spettacolo (la resa dei conti nel bel mezzo del capodanno balinese è senza dubbio la migliore scena di massa che Mann abbia mai realizzato), ma sorge il sospetto che l’artefice di tanti capolavori del crime a questo giro si sia ritrovato ben poco su cui mettere le mani e su cui impostare la sua usuale, perfetta convergenza di etica e di estetica (quella, per fare un esempio, di un’opera affine ma assai più riuscita come Drug War di Johnnie To): non è affatto del disastro per cui, considerato anche il flop al botteghino, gran parte della stampa USA si è battuta il petto, ma per lo standard stellare del creatore di Miami Vice si tratta senz’altro di un rimediabile passo indietro.

Voto 6.5

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