Hunger

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Tiocfaidh ár lá
(Il nostro giorno verrà)



Benvenuti nella nazione più commerciale dell’Europa Occidentale! L’unico paese in cui i film più recenti escono prima dei più vecchi e si ammirano le opere prime soltanto se le opere seconde hanno incassato al botteghino! E’, infatti, grazie al successo di Shame che possiamo ammirare Hunger.
I film molto belli e quelli molto brutti sono i più difficili da recensire. Hunger, caratterizzato da un paradossale valore di attualità per l’Italia del 2012, esce in sala durante la pagina più buia della nostra storia nazionale, quella in cui i cittadini si suicidano senza combattere, stritolati dal sistema. L’adamantina opera prima di Steve McQueen, uscita nel mondo civilizzato ben quattro anni fa e giunta nella periferia dell’impero soltanto venerdì scorso, è un capolavoro e Michael Fassbender incarna il rarissimo caso di sex symbol capace di regalarci un cinema d’autore di livello che credevamo estinto.

Siamo a Belfast, alla fine degli anni 70 e Bobby Sands guida la rivolta degli irlandesi contro l’Inghilterra. La sgradevole quanto implacabile voce off della Thatcher ci fa immediatamente comprendere, come se le scene di ultraviolenza gratuita nei confronti dei prigionieri politici (il cui status non venne mai, intenzionalmente, riconosciuto dal governo britannico) non fossero un segnale sufficiente, quanto tragica sia stata la situazione in Irlanda del Nord al tempo.
L’IRA chiese ai suoi militanti sacrifici al limite dell’umana sopportazione e, quando sembrava che nulla potesse impressionare il governo, iniziò la fase dura, i cui effetti vengono rappresentati sullo schermo con scene difficilmente sostenibili ed impossibili da dimenticare anche per il cinefilo più smaliziato: tutto ebbe inizio con la Blanket Protest (“protesta delle coperte”) del 1976, quando i prigionieri si rifiutarono di indossare le uniformi e vissero la prigionia nudi, con la sola protezione di una coperta sulle spalle. Due anni dopo, nel 1978, partì la Dirty Protest (“protesta dello sporco”), escalation della precedente che durò ben quattro anni. Il 27 ottobre 1980 iniziò il primo sciopero della fame. Guidati da Brendan Hughes, sette detenuti (sei dell’IRA ed uno dell’INLA) digiunarono per 53 giorni sino al 18 dicembre, giorno in cui Sean McKenna, ad un passo dalla morte, ricominciò a mangiare, illuso da promesse che il governo britannico non mantenne mai. Il secondo e definitivo sciopero della fame iniziò quando Bobby Sands, divenuto leader al posto di Hughes all’inizio del primo sciopero, rifiutò il cibo il 1º marzo 1981.

Il resto è immagine. Il dolore diviene talmente sordo e lo spettatore talmente coinvolto negli eventi narrati da avere la netta impressione di trovarsi in carcere, nudi, sporchi ed affamati… grazie ad una fotografia perfetta che ci regala un girone infernale dal quale sembra possibile uscire solo da morti. Menzione d’onore per l’immenso piano sequenza dell’addio alla vita di Bobby Sands che avviene attraverso uno struggente dialogo tra il protagonista (un Fassbender in stato di grazia) ed un prete cattolico (il bravissimo Liam Cunningham) che ricorda le più belle pagine di Joyce e Dostoevskij.

Sands morì dopo sessantasei giorni di inferno in terra (la progressiva, cristica, scarnificazione di Fassbender è tra le prove d’attore più intense della storia del cinema europeo. Soltanto ne L’uomo senza sonno si era visto qualcosa di simile, con un Christian Bale da antologia che, meno di un anno più tardi, sarebbe stato nuovamente così muscoloso da interpretare Batman!) e nove uomini lo seguirono: “Ero soltanto un ragazzo della working class proveniente da un ghetto nazionalista, ma è la repressione che crea lo spirito rivoluzionario della libertà. Io non mi fermerò fino a quando non realizzerò la liberazione del mio paese, fino a che l’Irlanda non diventerà una, sovrana, indipendente, repubblica socialista”.

Voto 9

Recensione a cura di Massimo Frezza
(www.binarioloco.it)

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