Argo

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Dopo le due buone prove registiche di Gone Baby Gone e The Town, questa volta Ben Affleck fa definitivamente centro, girando quello che risulta essere senza ombra di dubbio il suo film più maturo. Presentato al Toronto Film Festival a settembre e ben accolto da pubblico e critica, Argo trae spunto da alcuni fatti realmente accaduti durante la rivoluzione iraniana del 1979. Verso la fine di quell’anno la rivolta promossa dall’ayatollah Khomeini è all’apice. I dissidenti chiedono così a Washington di estradare lo scià Reza Pahlevi, cacciato dal potere e gravemente malato, che si era rifugiato precedentemente negli Stati Uniti per sottoporsi a delle cure mediche. Prendendo come pretesto il “gran rifiuto”, il 4 novembre dei militanti iraniani colpiscono l’ambasciata americana a Teheran sequestrando cinquantadue cittadini statunitensi. Solo sei di loro riescono a sfuggire al presidio rifugiandosi in casa dell’ambasciatore canadese. E’ a questo punto che interviene Tony Mendez (l’autore del libro cui la pellicola è ispirata, interpretato da Ben Affleck), un agente della CIA che per riportare a casa i sei propone un piano talmente assurdo da poter funzionare. Sarà egli stesso a recarsi a Teheran, facendosi passare per il produttore di Argo, un film di fantascienza, con la scusa di dover effettuare dei sopralluoghi. Una volta finita la messa in scena, i prigionieri potranno ripartire con lui, fingendosi membri della sua troupe. Facile a dirsi, un po’ meno a farsi.



Scrollatosi definitivamente di dosso il ruolo di playboy che gli era stato affibiato dai media negli anni successivi alla vittoria dell’Oscar per la seceneggiatura di Will Hunting – Genio ribelle (a soli ventisei anni), soprattutto per le sue chiacchierate relazioni con Gwyneth Paltrow prima e con Jennifer Lopez poi, ora che Affleck ha compiuto quarant’anni e ha messo su famiglia, sembra che non veda l’ora di mostrarci il suo lato impegnato. A chi si domanderà, vedendo il film, come faccia ad essere tanto abile a muoversi nella viscosità di una materia tanto ostica e politicamente intricata come quella che ha scelto di raccontare, è bene ricordare che questo raro esemplare di yankee parla correntemente spagnolo, francese e arabo e che, dopo essersi diplomato alla Cambridge Rindge and Latin High School ha frequentato prima l’Università del Vermont e poi l’Occidental College, in California, per dedicarsi agli studi mediorientali. Talento e preparazione dunque, nonostante Argo non sia privo di difetti. Tra questi spicca qualche caduta di stile, due o tre scivoloni in cui il regista si sente in dovere di rimarcare la propria condizione di americano ad ogni costo (in fondo i buoni sono loro, come sempre, mentre gli iraniani in rivolta per le strade di Teheran sono brutti, sporchi e cattivi). Ma passa tutto in secondo piano quando si può contare su una sceneggiatura tanto solida e dai tempi perfetti che dà il la a un cast valido e ben amalgamato. Le immagini sgranate di Rodrigo Prieto (il direttore della fotografia fedele collaboratore di Iñárritu e di Oliver Stone) aumentano la veridicità del racconto riportando alla mente il Condor di Pollack, che già fu una notevole fonte di ispirazione per Clooney (qui nelle vesti di produttore insieme a Grant Heslov con la loro Smokehouse Pictures) e per il suo Le idi di marzo.

La freschezza di idee della sceneggiatura scritta da Chris Terriosta e ispirata al libro di Mendez e a un articolo apparso su Wired Magazine dal titolo “The Great Escape”, sta nel fatto che il film si ispira a eventi reali (i sei americani sono stati davvero ripresi per i capelli da Tony Mendez) che sono rimasti top secret per diciotto anni, fino a quando non furono declassificati dal presidente Clinton nel 1997. Ed è interessante vedere come  Argo, il finto film, il cavallo di Troia utilizzato dalla CIA come escamotage, non è mai stato girato, ma l’Argo che vediamo noi, ringraziando il cielo sì. Affleck ci pone su un piatto d’argento un invito alla riflessione sulla potenza di Hollywood, che anche in paesi lontani sia fisicamente che culturalmente come l’Iran è riuscita a ritagliarsi un posto d’onore nel background culturale di questa gente, con tutte le strane creature che si porta dietro (“Immagino che anche gli iraniani siano cresciuti con i film di Star Wars o di Indiana Jones” ha dichiarato Affleck in una recente intervista). Strane almeno quanto quelli che a Hollywood ci lavorano: il vero produttore del finto Argo, interpretato splendidamente da Alan Arkin, pronto a metter su un film in quattro e quattr’otto pur di dare una mano a Mendez, e il suo collega make-up artist (John Goodman), che inventa di sana pianta maschere e trucchi alieni, credibilissimi a Hollywood come a Teheran.

E poi c’è il Ben Affleck attore, meno incisivo di quello con la macchina da presa tra le mani, che si è ritagliato il ruolo di un protagonista sui generis. Il suo Tony Mendez, nonostante sia il fulcro attorno al quale la storia ruota e si dipana, sembra quasi un personaggio secondario, indispensabile e volutamente sottotono, abilissimo nel piegarsi alle sinuosità di un racconto teso e al cardiopalma come non se ne vedevano da tempo. Si suda freddo, si percepisce fisicamente lo scorrere del tempo come nemico principale del gruppo di americani che deve essere portato in salvo, sottolineato ancor di più dall’ansiogena colonna sonora di Alexandre Desplat, efficientissima nel conferire ritmo e suspance alle immagini in movimento di Mr. Ben Affleck, che con Argo si è ritagliato definitivamente un posto nell’olimpo di Hollywood.

Voto 8

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Carolina Tocci

Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.

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