Cloud Atlas

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I Wachowski Bros accettano la sfida lanciata loro da Tom Tykwer (che in un primo momento doveva dirigere il film da solo) e, insieme a quest’ultimo, traducono  in immagini L’atlande delle nuvole di David Mitchell, uno dei romanzi all’apparenza meno filmabili che si riesca a immaginare.
Sono sei storie che s’intrecciano e che, pur essendo ambientate in epoche differenti (si va dalla metà dell’Ottocento al 2321), hanno come trait d’union la lotta del singolo contro un destino/prigione che sembra già scritto e per nulla correggibile.
Per meglio evidenziare le continue connessioni tra le diverse storie gli autori si affidano, oltre che a un uso spettacolare del montaggio, all’utilizzo reiterato di alcuni degli attori del cast in ruoli differenti (Tom Hanks in particolare è straordinario e il suo trasformismo ricorda molto da vicino il Peter Sellers del Dottor Stranamore) con soluzioni di make up talvolta volutamente eccessive, ai limiti del grottesco.



In Cloud Atlas i Wachowski sembrano soffrire della stessa sindrome di cui abbiamo visto cadere vittima Peter Jackson, ossia della difficoltà di voltare artisticamente pagina dopo aver firmato opere dotate di una tale forza simbolica – la trilogia dell’anello e quella di Matrix – da rimanere impresse nell’immaginario collettivo come mondi, prima ancora che come film.
Se Jackson ha risolto la cosa tornando nella Terra di Mezzo, i Wachowski prendono quegli stessi topoi narrativi che permeavano l’intera saga di Matrix (come anche il poco riuscito Speed Racer) – quindi il manicheismo cristologico “eletto Vs corporazioni cattive” e l’individuazione nell’amore dell’unica variabile non soggetta alle leggi del destino – e, con l’aiuto del sodale Tom Tykwer, lo dilatano nel tempo e nello spazio, costruendo un film “monstre” (si sfiorano quasi le tre ore) sulle dure leggi del destino e la sua ciclicità.
La prima ora è piuttosto difficile da seguire, causa un montaggio che ci presenta i personaggi in maniera forse troppo veloce, e si fatica non poco ad entrare nella storia. Poi il film acquista ritmo e procede più spedito verso un finale per niente consolatorio.

Scommessa vinta solo a metà quindi ed è un vero peccato perché Cloud Atlas, in diversi momenti, ha il respiro e le suggestioni del grande cinema (la scena in cui vengono mostrati i cadaveri delle “operaie” appesi come quarti di bue ad esempio è eccezionale), ma è il film nel suo complesso che, seppur visivamente ricchissimo, gira un po’ a vuoto per gran parte della durata.
E’ evidente la sua natura di opera dalla gestazione lunga e travagliata e ancora più lo sono le differenze stilistiche tra le scene girate da Tykwer e quelle dei Wachowski (questi ultimi, in particolare, si occupano delle storie ambientate nel futuro e la loro Seul post-apocalittica richiama moltissimo Zion).
Alcuni snodi narrativi vengono risolti con troppa naïveté e l’escamotage della macchia a forma di cometa sulla pelle per legare i personaggi chiave nei diversi piani storici è un po’ grossolano.
E poi c’è un problema di fondo. Il film è pesante. E troppo lungo.
In pratica impiega tre ore per esprimere un concetto che John Lennon e Paul McCartney anni fa sintetizzarono in una sola frase: “All You Need is Love”.

Voto 6

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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