Trash

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Rafael, Gardo e Gabriel sono tre ragazzini di strada che passano le loro giornate tra la le difficoltà di una qualsiasi favela brasiliana e un lavoretto allo smaltimento rifiuti per racimolare qualche soldo.
Proprio rovistando in una discarica, un giorno Rafael trova un portafogli contenente la chiave di una cassetta di sicurezza e una serie di indizi che, se interpretati nel modo giusto, potrebbero far emergere alcune verità piuttosto scomode per molti uomini politici.
Anche la Polizia, corrotta e asservita alle logiche del potere, è sulle tracce di quel portafogli e, quando scopre che i ragazzi ne sono entrati in possesso, dà inizio a una caccia senza esclusione di colpi.
Rafael, Gardo e Gabriel si troveranno quindi a scontrarsi con un sistema per il quale si rendono ben presto conto di essere pedine molto più che sacrificabili e, con l’aiuto di Padre Juillard (Martin Sheen) e della sua assistente Olivia (Rooney Mara) proveranno a sovvertirlo con l’incoscienza che solo chi vive per strada può avere.



Tratto dall’omonimo romanzo per ragazzi scritto da Andy Mulligan e sceneggiato da Richard Curtis (Quattro matrimoni e un funerale, Love Actually), Trash arriva nelle sale italiane fresco di premio del pubblico all’ultimo Festival Internazionale del Film di Roma.
Stephen Daldry (Billy Elliott, The Hours) dirige con mano sicura, avvalendosi di troupe e cast quasi interamente locali questo astuto mix di denuncia sociale e thriller e il risultato è un solido prodotto di intrattenimento mainstream.
Operazione per molti versi simile a quanto fatto da Danny Boyle sul versante indiano con The Millionaire, salta subito all’occhio come Trash soffra di un pesante scollamento tra vicende narrate e cornice scelta, tipico dei film che, nel tentativo di raggiungere un pubblico quanto più ampio possibile, tendono a edulcorare i temi trattati fino ad annacquarli e a diventare, di fatto, qualcosa di molto simile a brevi gite turistiche per ricchi in luoghi disagiati.
E dire che di esempi di film che, negli anni, sono riusciti a mostrare i lati meno rassicuranti delle metropoli brasiliane ce ne sono diversi, due su tutti Tropa de Elite di José Padilha (Orso d’oro a Berlino 2008) e il più famoso City of God di Fernando Meirelles da cui Daldry, quasi come a volersi garantire uno status di credibilità territoriale, eredita sia il direttore della fotografia che il compositore della colonna sonora.

E’ come se, nel tentativo di rendere tutto meno estraneo, ci fosse una mano chiamata a ripulire gli angoli più sporchi di San Paolo immediatamente prima che la macchina da presa ci poggi sopra lo sguardo. Anche la scelta delle due star americane – oltre che gli unici nomi in locandina a rappresentare una fonte di richiamo – appare, in quest’ottica, del tutto ornamentale e poco funzionale alla narrazione.
E non sembri questa una critica di natura puramente formale, in quanto il problema attiene di più al campo dell’etica della visione che non alla sua estetica. In altri termini la domanda da porsi è se sia giusto o meno cercare di divertire il pubblico strumentalizzando una realtà che tutto è tranne che divertente.
A parere di chi scrive la fruizione di Trash – come fu per lo stesso The Millionaire del resto – non può prescindere da questo tipo di valutazione nonostante il film in sé funzioni (e con Curtis a scrivere ci mancherebbe altro), abbia i ritmi giusti e i giovani attori risultino immediatamente simpatici.
Alla luce di questo, la scelta del pubblico di premiarlo a Roma appare assolutamente comprensibile, quasi scontata per un film che sembra fatto apposta per ricevere riconoscimenti.
Resta giusto il rimpianto per un progetto che, se solo avesse avuto il coraggio di sporcarsi di più le mani, abbandonando ogni eventuale pretesa di colonialismo culturale, avrebbe avuto forse un po’ meno appeal commerciale, ma avrebbe guadagnato, in compenso, un respiro antropologico che qui latita del tutto.

Voto 6

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Carolina Tocci

Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.

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