Jimmy’s Hall – Una storia d’amore e libertà

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Arriva inevitabilmente il momento, in una produzione accompagnata da sempre alla militanza, in cui la passione civile e il furore politico non bastano più a nobilitare l’intento artistico – figuriamoci quindi a giustificarlo -, il superamento di una soglia oltre cui incombono spietati anacronismo e maniera. Così come l’operato del collega e coetaneo Citto Maselli rimasto orfano delle convergenze parallele e del compromesso storico, il cinema del decano Ken Loach al crepuscolo dell’anti – e del post-thatcherismo è rimasto saldamente aggrappato a se stesso e, con le dovute eccezioni dell’ottimo In questo mondo libero…, dove a funzionare era soprattutto l’inedita prospettiva padronale dei soliti temi, e della sentita sortita documentaristica di The Spirit of ’45, ha progressivamente perduto la propria ragion d’essere, ora riproponendo pigre variazioni sul tema (come quel Paul, Mick e gli altri che ripeteva la medesima struttura di Riff Raff o quella versione casalinga del riuscito Terra e libertà che fu Il vento che accarezza l’erba), ora sperimentando formule decisamente al di fuori della propria portata (il romance interculturale Un bacio appassionato, la commedia surreale Il mio amico Eric e il thriller cospirativo L’altra verità).



Jimmy’s Hall è il consueto appuntamento a scadenza mai men che biennale sfornato dall’accoppiata storica Loach-Laverty, un racconto portato avanti con una sincerità e una coerenza di fondo sempre più croce e meno delizia dell’ottica dell’artefice di My Name Is Joe, una testimonianza che, col pretesto di trasfigurare il presente ricorrendo alla biografia storica, tradisce soltanto lo smarrimento di un autore che ha perso definitivamente di vista l’attuale e che preferisce ripararsi dietro un senso di nostalgia e di appartenenza che, in un’epoca definitivamente segnata dal crollo delle ideologie, non suscita più alcuna commozione, ma che al massimo fa tenerezza.

Zuccherino capace di soddisfare esclusivamente il palato di qualche veterocomunista irredento – già entrata nel culto la recensione entusiasta di Concita de Gregorio -, Jimmy’s Hall si accontenta di crogiolarsi in un manicheismo fastidioso e tagliato con l’accetta, con contrapposizioni fra proletari tutti in odor di santità e tutori dell’ordine tutti trainati dalla stessa ottusa malvagità, e in un didascalismo trombone da spari sulla Croce Rossa (la tirata del protagonista contro l’America travolta dalla Grande Depressione, su tutte), sovraimpressi a una visione d’insieme non troppo diversa dalle storielle di Don Camillo – a ruoli naturalmente invertiti – o da una specie di versione politicizzata di Footloose. Va ancora una volta notato, poi, quanto l’attenzione alla cura formale si traduca spesso nell’opera di Loach in una minore riuscita sotto il profilo della scrittura e dell’approfondimento delle situazioni, vista la bidimensionalità e il tratteggio minimo dei caratteri, formulaici fino allo stereotipo, dalla madre chioccia agli adolescenti prestanti e pulitini che paiono usciti dall’iconografia sovietica, fino a un sommesso love interest di rara inconsistenza cui nemmeno una scena di ballo vagamente erotica, tanto espressiva quanto fuori posto, riesce a restituire profondità.

In attivo viene solo da segnalare la fotografia ombrosa e smeraldina di Robbie Ryan (presenza fissa, e in un certo senso valore aggiunto della carriera di Andrea Arnold e Osella per il Contributo Tecnico a Venezia per Wuthering Heights), che arricchisce la programmatica trascuratezza e la ricercata sciatteria delle immagini loachiane a scapito dell’anima stessa della storia. Pur dando il titolo al film, la sala allestita dall’attivista irlandese Jimmy Gralton (Barry Ward) per ospitare le attività pedagogico-intrattenitive della sua comunità non entra mai nel vivo delle vicende e stenta ad assurgere allo status di personaggio, mentre gli scontri ideologici fra classe operaia e oppressori di turno – qui, per non farci mancare nulla, abbiamo una spietata alleanza fra sacerdoti e latifondisti – ormai procedono col pilota automatico, senza sorprese né innovazioni.

A tratti la spavalderia del veterano mangiapreti riacquista il suo fascino populista e, se si accetta il gioco, si corre anche il rischio di appassionarsi (la presentazione del grammofono e il corteo in bicicletta che “scorta” Jimmy prima della partenza per l’esilio, per esempio, regalano qualche sussulto), il misero universo che lotta per i propri diritti, come già detto, pulsa di ruspante autenticità e di vita vera, ma al termine di una filmografia lunga oltre quarant’anni (Jimmy’s Hall è l’ultimo progetto del regista, stando alle parole della produttrice Rebecca O’Brien) sarebbe stato lecito aspettarsi oggi da Loach un percorso più diversificato e meno fossilizzato, e si vengono francamente a rimpiangere i tempi in cui il suo discorso sapeva essere palpitante, necessario e urgente.

Voto 4

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Carolina Tocci

Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.

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