Birdman (o le imprevedibili virtù dell’ignoranza)

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“Io amo molto gli attori.
Li amo per quello che sono.
Il loro coraggio, la serietà professionale.
E il disprezzo della morte che sembrano avere”. – Dopo la prova, Ingmar Bergman



Il giro sull’ottovolante impazzito di Birdman parte dall’immagine quieta e silenziosa di un uomo di spalle sospeso prodigiosamente a mezzo metro da terra a meditare nella posizione del loto.
Niente di straordinario, in un’iconografia filmica come la nostra in cui superpoteri e leggi fisiche negate sono all’ordine del giorno, se non fosse per il contesto squallidamente reale dell’insieme: non ci troviamo nel ritiro eremitico di un dinamico paladino dell’umanità in maschera e tutina di ordinanza, ma nel camerino spoglio e infestato di ricordi di un consumato attore in mutande, sfigurato dall’insorgere della mezza età e dal peso del fallimento.

“Come siamo finiti qui, in questo posto orribile che puzza di palle?”, protesta la sua coscienza, con insinuante tono macbethiano, imprigionata in una gabbia di ambizioni disattese e di opportunità mancate. Per chi, non a torto, faticava a concepire un potenziale contraltare comico nel grave e solenne microcosmo disgraziato di Alejandro González Iñárritu, la risposta sta già tutta qui, nella presentazione laconica di un eroe tragico e patetico a un passo dal mistico che fa il paio con il percorso cristologico dell’Uxbal del precedente Biutiful; ma se quest’ultimo arrivava a ribaltarsi nel ridicolo involontario più per accumulo enfatico che per calcolo, portando di fatto il discorso del regista messicano su un binario morto, Birdman non ne rappresenta semplicemente l’effettivo lato farsesco (in fondo, complice la partecipazione dei medesimi co-sceneggiatori, il soggetto è praticamente identico), ma anche quel deciso, rinvigorente impulso autoparodico capace di restituirci oggi un autore finalmente consapevole dei propri limiti e del proprio linguaggio.

La chiave ironico-decostruzionista di Birdman non si esaurisce però nei presupposti autobiografici e finisce per investire tanto la materia, in maniera non esattamente nuovissima, oltretutto a più di vent’anni da I protagonisti di Altman, quanto la forma, con esiti invece più che sorprendenti. Se quindi la satira dei meccanismi cannibali dello show-business, con l’universo preponderante dei cine-comic del decennio in corso a prendersi la responsabilità dei mali del mondo, a lungo andare si rivela un po’ risaputa, se non cerchiobottista (l’incuria e le etichettature dei critici, le idiosincrasie dei divi e l’onnipresenza dei social network ci mettono comunque del loro), è l’esasperazione del mezzo a esprimere al meglio la vis caricaturale del film. Un unico, sovrumano, paradossale pianosequenza che squarcia la durata e lo spazio è l’espediente che Iñárritu impiega per amplificare ed “esorbitare” lo sguardo, sfondando con un’illusione quadridimensionale assoluta quell’unità di luogo, di tempo e di azione che sta alla base dell’idea di messinscena, imbastendo una sorta di spettacolo itinerante su binari impraticabili che è pure una celebrazione del cinema nel suo significato più puro e letterale, cioè in quanto movimento, relegando il montaggio a mera apparenza di raccordo (sulle orme di Nodo alla gola di Hitchcock) e reclutando per l’occasione quell’Emmanuel Lubezki che con i cimenti avanguardistici di Children of Men e di Gravity aveva spinto ai confini del fattibile le possibilità tecniche ed espressive del long take, qui ipertrofizzate a tal punto da farsi loro stesse parodia.

Ben più delle sarcastiche frecciatine interne allo star system – di cui fanno le spese, fra gli altri, quel “pagliaccio rivestito di latta” di Robert Downey Jr. e interpreti di spessore prigionieri dei franchise tipo Michael Fassbender e Jeremy Renner – a lasciare il segno è quel ribollente magma meta- che travolge il piano del racconto, dallo scellerato, inattuabile adattamento di un cardine della narrativa breve come Di cosa parliamo quando parliamo d’amore di Raymond Carver che funge da cornice alla storia vera e propria al viaggio cinematico della macchina da presa nello scenario degli eventi che si fa esso stesso, escherianamente, teatro, fino all’impiego di una colonna sonora originale (a firma Antonio Sánchez) interamente affidata alla percussione che diventa l’unico e primitivo sistema di scansione ritmica al posto dell’alternarsi dei campi.

A provocare il corto circuito definitivo, poi, sono le scelte di casting, certosinamente approntate: se Edward Norton replica con aderenza totale e con ammirevole autolesionismo il canone del vanaglorioso, intrattabile cavallo di razza da Actor’s Studio – e, seguendo il giochino dei rimandi, anch’egli vittima del filone supereroistico (L’incredibile Hulk) ed Emma Stone, già indimenticabile protagonista di Magic in the Moonlight, cancella con impressionante maturità quell’immaginario adolescenziale che la rendeva riconoscibile innanzitutto in qualità di fidanzatina di Spider-Man (la sua sfuriata sull’essere rilevanti è un momento da antologia), sono perfettamente studiate anche molte figure di secondo livello, in particolare quella di Naomi Watts, deformata in una specie di evoluzione adulta e disillusa della Betty di Mulholland Dr. (con tanto di bacio lesbico), e soprattutto quella della pinteriana Lindsay Duncan, nel ruolo centrale e sibillino – quasi una strega del Macbeth, citato non poco – del critico del New York Times avvelenato nei confronti dei parvenu della scena.

Su tutto e su tutti si erge la performance monumentale di un commovente Michael Keaton, protomartire del blockbuster moderno che una decade abbondante di oblio vissuta fra reflussi tarantiniani (Jackie Brown e, per traverso, Out of Sight), particine di contorno per la Pixar (il villain di Cars, Ken di Toy Story 3) e tanta ineludibile serie B ha ridotto a un autentico revenant. Impossibile non riscontrare nel suo Riggan Thompson e nel suo alter ego alato del titolo la trasfigurazione di una carriera tanto irresistibilmente decollata sotto il mantello del primo (e, ammettiamolo una buona volta, migliore) Batman dell’era post-televisiva quanto ancor più rapidamente sprofondata nell’oblio a baraccone sgombrato in tutta fretta quando finisce la festa.

È in questa convergenza, a metà fra il mito di Icaro e il cassavetesiano La sera della prima, che il folle e a tratti sbilanciato esperimento di Birdman trova la sua gloria e il suo compimento, nell’identificazione sincera con l’eterno perdente (il verdetto degli Oscar, già lo intuiamo, manterrà lo status quo) e con quella “favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla” (di nuovo Macbeth) che è il mestiere dell’attore ed, estensivamente, la vita stessa.

Voto 8

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