Un posto sicuro

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Casale Monferrato, 2011. Eduardo (Giorgio Colangeli) e Luca (Marco D’Amore) sono un padre e figlio che si sono persi di vista ormai da troppo tempo.
Il primo ha passato una vita a lavorare come operaio all’Eternit, mentre Luca coltivava il sogno di recitare per poi finire a fare il clown alle feste. Sono entrambi soli e ora una telefonata improvvisa li rimette drammaticamente l’uno davanti all’altro senza però concedere loro la possibilità di un lieto fine. Eduardo sta infatti morendo a causa di un mesotelioma, un tumore causato dall’esposizione alle fibre di amianto durante gli anni in fabbrica. Il bisogno di dar voce al proprio dolore e l’amore per una ragazza daranno a Luca la forza per rinascere e lottare, raccontando la storia di suo padre e di chiunque si trovi a pagare un prezzo così alto per aver fatto semplicemente il proprio lavoro.



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L’esordio nel lungometraggio di Francesco Ghiaccio (anche autore della sceneggiatura insieme al protagonista Marco D’Amore) ha tutti i pregi e i difetti di molte opere prime.
La sincerità alla base del progetto è indubbia; del resto Ghiaccio è cresciuto vicino a Casale Monferrato ed è evidente che sa benissimo di cosa sta parlando.
Allo stesso modo in cui è evidente la partecipazione emotiva riversata nel film dai suoi due attori principali, Giorgio Colangeli e Marco D’Amore.
Quest’ultimo, in particolare, mette in luce una maturità interpretativa finora inespressa che fa ben sperare per quel che verrà dopo Gomorra. Il fattore emotivo rappresenta però anche il maggior limite di un film che, sotto il peso di un’istanza sociale così forte e ancora non del tutto metabolizzata, non riesce mai a decollare in termini di pura narrazione. Gravato da una serie di dialoghi eccessivamente didascalici, Un posto sicuro si trincera infatti dietro l’enormità di una tragedia ingiustificabile, provando a raccontarne il dolore ma senza premurarsi di costruirvi attorno un’impalcatura semantica forte che riesca a renderlo qualcosa di più, o anche solo di diverso, da un’accorata docufiction.

Non è affatto un caso che i momenti più toccanti del film corrispondano a immagini di repertorio che mostrano i veri operai al lavoro, mentre armeggiano con l’amianto, del tutto inconsapevoli di cosa questo avrebbe comportato per loro in futuro. Ed è un peccato perché la regia di Francesco Ghiaccio trasuda un forte rigore stilistico e, attraverso questa rappresentazione di una Casale Monferrato così desertica e spettrale, restituisce allo spettatore l’idea dell’assenza, sia fisica (sono circa 3000 le vittime dell’amianto in quell’area geografica) che di giustizia.
Perché, più che sul rapporto tra padri e figli, Un posto sicuro è un film incentrato sul senso di colpa di chi prima ha preferito voltarsi da un’altra parte e adesso cerca di lavarsi la coscienza col denaro e sulla sensazione di impotenza che attanaglia chi, dopo la morte di una persona cara, di quel denaro non sa che farsene. Un’opera importante quindi nel suo perseguire con fermezza un’idea di cinema civile quasi d’altri tempi, ma non altrettanto in un impianto narrativo che si limita a mettere in scena ciò che potremmo apprendere dalla semplice lettura di un articolo di giornale.

Voto 5

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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