One More Time with Feeling

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Esattamente come in The Armstrong Lie di Alex Gibney, operazione encomiastica dedicata al famigerato ciclista texano trasformatasi in corso d’opera e alla luce dello scandalo doping in una spietata, invelenita disamina sul potere della menzogna, in One More Time with Feeling il cinema è costretto a fare i conti con l’incontrollabile, imponderabile interferenza della vita reale e a tentare di reagire con lucidità, coerenza e prontezza all’imprevisto. Non ci sarebbe nulla di male a pensare che l’iniziativa di Nick Cave, perlomeno nello stadio embrionale della produzione, intendesse prendere le mosse dalle parti del documentario celebrativo e del retroscena promozionale, in misura non molto diversa dal narcisistico, adulterato esperimento di 20.000 Days on Earth, aprendo un nuovo spiraglio sull’universo privato e sul processo compositivo di uno dei più influenti e acclamati cantautori della sua generazione, senza considerare l’incognita di cui sopra, cioè la vita stessa. O, in questo caso, la sua fine.

One More Time with Feeling – e quindi anche l’album, Skeleton Tree, di cui si presenta come backstage – cattura infatti il clima di angoscia, di confusione e di sconcerto creatosi nella grande famiglia dei Bad Seeds, o quantomeno della loro attuale incarnazione, in seguito alla morte di Arthur Cave, figlio adolescente del loro frontman, principe delle tenebre della scena rock contemporanea trovatosi improvvisamente protagonista della sua ultima, caratteristica murder ballad, quella estrema e definitiva in quanto ineffabile e personalissima, infinitamente lontana dalle crudeli declamazioni febbricitanti del passato e vicina al linguaggio dimesso e contrito della messa da requiem. Ed è al neozelandese Andrew Dominik che Cave si rivolge, dopo aver offerto i propri servigi tanto per L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford quanto per il successivo The Road, per trovare un senso e una soluzione alla propria depressione e per dare forma, ordine e dignità al proprio dolore, confidando nella discrezione, nel pudore e nel tatto del suo amico di lunga data, responsabile di una scelta estetica precisa e disarmante.

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Il lutto, nell’ottica di Dominik, assume i contorni di un opalescente purgatorio in bianco e nero e in tre dimensioni – si sconsiglia vivamente, pertanto, la visione in 2D -, un abisso di routine e di disagio in inquadrature fisse spezzato dalle evoluzioni in virtuosistici piani sequenza delle esibizioni canore, che abbandonano lo schema del videoclip per esplorare lo studio, i suoi dintorni e i suoi abitanti, fluttuando nell’aria e inseguendo tragitti impossibili, come nell’incommensurabile ascesa ultraterrena di Distant Sky, straziante picco sentimentale e apoteosi del tutto, alla ricerca di quel fantasma evocato così faticosamente a parole – salvo una confessione di coppia a cuore aperto insieme alla moglie Susie Bick, in cui Cave prende per la prima volta di petto ciò che laconicamente definisce “il trauma” – e così apertamente affrontato in musica, come nella riscrittura semi-improvvisata del testo di Jesus Walks, brano di apertura, o nel riarrangiamento della title track che chiude il disco, che dalla smorta negazione della prima versione pare sottendere, a ridosso dei titoli di coda, alla lenta, rassegnata catarsi dell’accettazione della seconda.

È così che il lavoro dietro le quinte, smascherato da subito nel suo farsi ingombrante sovrastruttura – l’interazione con le attrezzature di scena, la poeticizzante voce off di Cave sconfessata nel finale – diventa una sessione di terapia di gruppo scandita dalle fasi preparatorie ed esecutive di ciascuna canzone e dal contributo di tutti i musicisti – e non, come lo stesso Dominik – coinvolti, a partire dal ruolo centrale di Warren Ellis, sciamanico violinista dei Dirty Three e co-leader dei Bad Seeds dopo la fuoriuscita dei fondatori Blixa Bargeld e Mick Harvey, tutti uniti nella realizzazione di un progetto che, al di là di ogni discutibile qualità effettiva – su cui Cave in persona, ragionevolmente, con la mente ai capolavori di un tempo, non si esprime – si rivela l’unica via d’uscita possibile dalla crisi. In questo modo, l’immersivo, ricercatissimo apparato audiovisivo si accompagna a un impatto emotivo tanto spontaneo e diretto da mettere in imbarazzo, una contemplazione della perdita capace di bilanciare la naturalezza dell’intimo, dalle conversazioni in macchina, che sembrano un calco dal reportage dylaniano Don’t Look back, alla visita a sorpresa di Earl, fratello gemello di Arthur, passando per i rari momenti di cazzeggio, con l’ambizione del cosmico (le meditazioni con cui Cave si confronta con l’idea di Dio e di Aldilà). Imperdibile per chi ha già familiarità con la carriera del rocker australiano, One More Time with Feeling è in realtà un oggetto ancor più prezioso per i non iniziati, un atto di generosità umana e artistica di intensità a tratti lancinante che si traduce in una travolgente gioia dei sensi e in uno dei film più irrinunciabili di quest’anno.

Voto 8.5
 

 

 

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