Café Society

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Windsor-EF-Elongated. E’ questo il font preferito da Woody Allen, quello con cui sono scritti i titoli di testa e di coda della maggior parte dei suoi film e che negli anni è divenuto uno dei suoi marchi di fabbrica, insieme ai vecchi brani jazz, alle nevrosi dei personaggi e ai dialoghi intellettualoidi e fulminanti. Anche Café Society, la sua 46° regia, si apre come il più classico dei film di Allen: i titoli di testa in Windsor, un sottofondo jazz e… Un party in piscina in una sontuosa villa hollywoodiana. Poi, una voce fuoricampo (nella versione originale della pellicola, quella dello stesso Allen) introduce i vari personaggi. La storia questa volta è quella di la Bobby (Jesse Eisenberg), ennesimo alter ego del regista, giovane ebreo che dal Bronx decide di raggiungere Los Angeles con la speranza che lo zio Phil (Steve Carell), noto agente cinematografico, possa aiutarlo facendogli fare carriera a Hollywood. Qui si innamora  di Vonnie (Kristen Stewart), segretaria di Phil con una situazione sentimentale a dir poco complicata. Basta così.



Allen per Café Society ha potuto contare su un budget piuttosto considerevole (una trentina i milioni di dollari messigli a disposizione dagli Amazon Studios, che hanno prodotto il film: esattamente il doppio del budget standard cui il regista di Io e Annie era abituato) e il risultato è sontuoso almeno quanto la fotografia di Vittorio Storaro, qui alla sua prima collaborazione con il regista. Le ricostruzioni dell’epoca sono perfette: tutto appare luminoso, elegante, accurato. Gli abiti e gli acessori sublimi (la costumista Suzy Benzinger si è ispirata direttamente alle collezioni disegnate da Coco Chanel negli Anni Trenta, andando a ricercare i bozzetti originali negli archivi della maison) i caldi tagli di luce fanno risaltare i beige e i crema degli abiti maschili, la morbidezza dei tessuti di quelli femminili (del personaggio della Stewart soprattutto, che sfoggia numerose mise, una meglio dell’altra), impreziositi da un nastro tra i capelli o da pendenti di brillanti.

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Incredibile come il primo film girato in digitale da Allen, riesca ad essere anche il suo lavoro più caldo e avvolgente: ci si entra davvero nei night fumosi della New York pre-guerra, quelle bettole che suonano jazz e swing fino all’alba, così come nei club più esclusivi, gestiti dalla mafia locale e frequentati da modelle e nelle ville dei produttori di Hollywood dove i brunch della domenica rappresentano un appuntamento imperdibile per tutto quel sottobosco di personaggi legati in un qualche modo all’industria del cinema. Ci si ritrova a stare lì con loro. Altrettanto riuscita risulta la caratterizzazione della famiglia di Bobby, perfetto esempio di ebraismo yiddish a stelle e strisce dell’epoca, con i genitori (strepitosa Jeannie Berlin nei panni della pragmatica Mamma Rose) rassegnati, a causa dei pregiudizi radicati e diffusi, a rimanere in un angolo e i figli decisi a voler contribuire in ogni modo per farsi riconoscere come parte pulsante e produttiva di un’America ancora in via di definizione.

Accolto senza troppi entusiasmi, chissà poi perché, a Cannes e in generale da pubblico e critica, Café Society è invece uno dei migliori film di Allen. La sua storia si serve infatti delle manie alleniane che ben conosciamo per arrivare a toccare picchi di profondità difficilmente rintracciabili nelle commedie romantiche, genere a cui Café Society effettivamente appartiene. Perché è un film su tantissime cose: sull’amore romantico, su un certo tipo di personaggi che hanno caratterizzato la società americana a cavallo tra le due guerre, sull’incoerenza, sulle scelte fatte e su quelle che non si vorrebbero mai fare, sulle strade intraprese nella vita nonostante tutto, e su quegli amori perfetti che, proprio perché rimasti immobili e sospesi in qualche anfratto del tempo, restano i migliori da raccontare, se si è capaci di farlo. E Allen lo è.

Voto 7,5

 

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Carolina Tocci

Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.

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