Sully

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Gran parte della carriera di Clint Eastwood, già dai tempi de Lo straniero senza nome, può riassumersi nel conflitto fra l’iniziativa del singolo e l’ottusità dell’establishment, un colpo di frusta assestato contro la debolezza della società civile e l’ipocrisia della convenzione. Dal revisionismo anarcoide de Il texano dagli occhi di ghiaccio alla crociata anti-istituzionale de Il cavaliere pallido, dalla corsa disperata di Un mondo perfetto alla rivincita degli emarginati di Million Dollar Baby, la sua produzione ha visto (e vede tutt’ora) nell’impulso individuale, quasi sempre contrapposto all’oppressione legittimata – ora esplicitamente politica, ora diffusamente sociale – del sistema dominante, l’epicentro morale e narrativo delle proprie storie e dei propri personaggi, perlopiù combattenti solitari guidati da un’inarrestabile senso di giustizia.



Ora suggellata dall’acclamazione e dal trionfo – il sergente Highway di Gunny, gli arzilli astronauti di terza fascia di Space Cowboys – ora dietro una mesta, insignificante vittoria che, sotto sotto, cela la sconfitta – il William Munny de Gli spietati, i commilitoni dimenticati di Flags of Our Fathers -, il percorso dell’ottuagenario cineasta californiano è sostanzialmente una pluridecennale esegesi dell’Eroe Americano attraverso la Storia, dai cattivi umori della recessione carteriana di Bronco Billy all’edonismo reaganiano di Firefox, dall’ipocrisia clintoniana di Potere assoluto fino alle speranze infrante della presidenza Obama di Gran Torino.

Ed è proprio a partire da quest’ultimo, testamento spirituale e punto di non ritorno della poetica del suo autore, che qualcosa sembra drasticamente cambiato: dall’agiografia di Invictus al posticcio chiaroscuro di J. Edgar, culminando con il becero propagandismo di American Sniper, l’antieroismo eastwoodiano ha smarrito via via il suo tratto caratteristico, quella problematicità di fondo capace di dare vita a una disamina morale fatta di sfumature e di contraddizioni.

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Sully, prevedibilmente, è quindi l’ultima tappa di una nuova fase celebrativa che al beneficio del dubbio preferisce la facile consolazione della sentenza, un discorso irrefutabile che non devia mai verso la possibilità, anzi, il valore dell’incertezza. Gli strascichi esistenziali e giuridici del pilota civile Chesley Sullenberg (Tom Hanks) a seguito di una sua azzardata ma pienamente riuscita manovra d’emergenza – quel “miracolo sull’Hudson” che scosse e appassionò mezza New York nel gennaio 2009 – vorrebbero proporsi come una parabola sull’importanza del fattore umano e sul suo ruolo determinante nell’imprevedibilità del quotidiano, ma finisce per limitarsi a ribadire, senza la sensibilità, l’intelligenza e soprattutto l’ambiguità di un tempo, le solite tesi libertariane alla base del pensiero di Eastwood, trasformatesi nel frattempo nell’elogio incondizionato – e per certi versi pure santificante – dell’azione singolare come antidoto all’incompetenza della classe dirigente.

È il riflesso di una nuova epoca di cui il regista di Bird, da outsider che fu, si ritrova oggi non solo il più rappresentativo degli alfieri, ma anche il vero e proprio maitre à penser, l’esplosione di quella carica revanscista che, nel brodo di cottura di quasi una decade di ribollente opposizione e con i primi vagiti dell’Era Trump, ha infuso nuova linfa al suo cinema, banalizzandolo e facendolo girare a vuoto. Basti pensare agli antagonisti, figurine unidimensionali in tenuta da burocrate – nello specifico, la commissione di inchiesta della National Transportation Safety Board – su cui il protagonista
facilmente impone le proprie ragioni, o al tentativo, volenteroso ma impacciato, di attorniare la vicenda principale con quell’America autentica, ovviamente bianca e nazionalpopolare, (quella che, in fin dei conti, è stata decisiva la scorsa settimana nel riconsegnare
il Paese ai repubblicani), abbozzando sottotrame e situazioni che non vanno da nessuna parte.

Hanks, incanutito e raggrinzito quanto basta per fungere da alter ego del vecchio Clint, è d’altro canto una scelta di casting funzionale e programmatica che, sulla carta, intenderebbe riconfermarlo, dopo Il ponte delle spie, nelle vesti di classico paladino dell’american way of life à la James Stewart dei nostri giorni, ma che, negli effetti, patisce i limiti di un personaggio monocorde e noioso dalla vaga aurea cristologica. E di certo non aiuta il fatto che a firmare lo script, basato sulle memorie dello stesso Sullenberger, sia un cristiano rinato saltuariamente prestato al cinema come Todd Komarnicki, che nell’arco di una risicata ora e mezza (record di brevità per il regista, abituato a prendersi i suoi tempi superando le due ore) rimane in superficie tanto nella sezione dedicata all’incidente – nulla che non si sia già visto in un film assai più complesso come Flight), tanto in quella giudiziaria, statica e protocollare fino all’anonimità, capace di riassumere nell’affrettatissima chiosa, una spiritosata con cui il co-pilota (Aaron Eckhart) suggella il processo, seguita da un’immediata dissolvenza in nero, quanto arrogante e facilone si siano fatti il linguaggio e la filosofia dell’Eastwood autore.

Fa male dirlo, ma, soprattutto oggi, questo è il cinema americano di cui meno abbiamo bisogno.

Voto 5

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