Walt Disney: il lato oscuro del genio

Di Andrea Bosco
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Personificazione esemplare dei dettami basilari del Sogno Americano, crasi perfetta, irripetibile fra il mondo della fantasia e quello dell’imprenditoria, ma anche figura manageriale altamente controversa, specchio della paranoia post-bellica USA e delle contraddizioni di un sistema scisso fra avanguardia tecnica e oscurantismo sociale.

Demiurgo della mitologia fiabesca moderna e di un immaginario smisurato destinato a imporsi nella memoria collettiva e nella cultura popolare una generazione dopo l’altra, insensibile allo scorrere del tempo e all’alternarsi delle mode, ma anche spregiudicato uomo di potere costantemente in bilico sulle voragini più nere della cronaca del Novecento.



Massificando e industrializzando il divertimento su misura per tutta la famiglia, Walt Disney ha rappresentato il volto rassicurante, quando non incantevole, del mezzo cinematografico e delle sue declinazioni commerciali e, allo stesso tempo, le sue sotterranee ipocrisie, il suo strisciante conformismo, i suoi neanche tanto velati appetiti imperialistici.

Quello che resta dell’eredità del magnate di Chicago a cinquant’anni esatti, giorno più, giorno meno, dalla sua morte è l’idea, come già scrivemmo nella nostra recensione di Cenerentola, di “un ombrello societario impegnato ad accaparrarsi pezzo dopo pezzo tutto l’intrattenimento di massa d’oltreoceano” a scapito del suo discorso identitario e della sua carica innovativa, capace di riunire i settori più disparati – dall’audiovisivo alla discografia, dal gaming all’editoria – sotto l’egemonia del marchio, traendo profitto, di volta in volta, dalla contingenza storica del momento.

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Una vignetta di Disney per Stars and Stripes

Fu così sin dagli albori, quando, nel 1918, un Disney ancora diciassettenne e pertanto troppo giovane per essere arruolato come volontario nelle fasi finali della Grande Guerra reagì realizzando vignette di natura patriottica, la sua prima attività grafica regolarmente pubblicata e retribuita, inizialmente per il giornale scolastico e in seguito per il tabloid militare Stars and Stripes, dando formalmente il via alla sua formazione professionale.

La passione per l’animazione si manifestò soltanto nel decennio successivo, dopo un breve periodo di praticantato, di studi da autodidatta e di pionieristici esperimenti che portarono alla fondazione in terra losangelina, nel 1923, del Disney Brothers Studio (che oggi è la Walt Disney Company): ci vollero anni prima che l’attività si dimostrasse proficua e non, contrariamente a quanto si crede, con la nascita di Topolino, ma con la creazione del suo immediato predecessore, Oswald il coniglio fortunato, ceduto alla Universal nel giro di pochi mesi dopo una disputa legata alla proprietà intellettuale del personaggio.

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Oswald il coniglio fortunato

Se Mickey Mouse e il suo esordio in Steamboat Willie nel 1929 sono ormai segni riconoscibilissimi della preistoria della compagnia, anche grazie all’inclusione, dal 2008, nel logo della Disney Animation Studios che precede ogni lungometraggio, fu comunque anche merito della moglie di Walt, Lillian Bounds, che propose di battezzare la futura mascotte dell’azienda con un nome molto più accattivante e decisamente meno pomposo rispetto al previsto Mortimer; e se questo non basta a ridimensionare l’apporto di Disney alla definizione della sua invenzione più conosciuta, va ricordato che il suo design definitivo è in realtà opera in toto del suo più fido collaboratore, l’animatore Ub Iwerks.

Seguì il decennio fortunatissimo delle Silly Symphonies, corti di estrema cura formale che, oltre a definire la poetica e l’inventiva degli studios e a costituire il primo step verso la compiutezza narrativa dei futuri capolavori, funsero da effettiva palestra per il cast tecnico che, fra il 1934 e il 1937, si dedicò alla produzione di Biancaneve e i sette nani, primo lungometraggio a cartoni animati della storia del cinema. Un trionfo tutt’altro che annunciato per un progetto che Disney covava già dall’adolescenza e sul cui fallimento molti contemporanei erano pronti a scommettere: la “Follia Disney”, come venne ironicamente ribattezzata dall’establishment, aveva tutti i presupposti – budget iniziale quadruplicato in primis – per trasformarsi in un irrecuperabile disastro, ma il successo fu così travolgente da avere ripercussioni anche nel Vecchio Continente.

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Leni Riefenstahl al ianco di Adolf Hitler

L’anno successivo all’uscita del film venne infatti accolto con tutti gli onori negli studi di Burbank il più potente e tecnologicamente avanzato cineasta d’Europa, in visita negli Stati Uniti per pubblicizzare la sua ultima fatica per il grande schermo: niente di male, se la persona e il film in questione non fossero stati la regista ufficiale del Terzo Reich, Leni Riefenstahl, e il suo Olympia. Un evento avvolto dal mistero e su cui permangono molti interrogativi (davvero Disney ignorava l’identità della sua ospite, come disse in seguito? È solo un caso che Disney, insieme a un risaputo simpatizzante nazista come Charles Lindbergh, sarebbe stato di lì a poco una delle personalità preminenti del comitato per il non-interventismo?), ma che inquinarono la reputazione di Disney al punto tale da far sorgere qualche legittimo sospetto sulle sue presunte tendenze antisemite.

E se su questo punto ci si potrebbe ancora permettere il beneficio del dubbio, assai più inequivocabili rimangono due iniziative successive, ossia la scelta dirigenziale di escludere totalmente dal reparto animazione le donne, in quanto “inadeguate al lavoro creativo”, e il ruolo di primo piano nella fondazione della MPA, divisione hollywoodiana di quel Comitato per le Attività Antiamericane che, cavalcando il clima di isteria instauratosi a Seconda Guerra Mondiale conclusa, avrebbe perseguitato centinaia di membri dell’industria cinematografica (o semplici addetti ai lavori, come alcuni ex impiegati dello stesso Disney) per le loro, presunte o meno, simpatie filo-comuniste.
Di lì all’incubo maccartista il passo sarebbe stato brevissimo.

Il resto, l’irresistibile ascesa e le tappe fondamentali di una carriera piena di capolavori, è storia più che nota ed è superfluo per noi ripercorrerla; ci limitiamo quindi, sotto la luce abbagliante delle celebrazioni, a fare un po’ di ombra e a delineare con qualche accenno di verità – quella che, per la cronaca, mancava a una buffonata indulgente e fasulla come Saving Mr. Banks – il profilo di una delle figure più rappresentative e caratterizzanti, nel bene e nel male, del secolo scorso.

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