Le donne e il desiderio

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Se si esclude lo sguardo postmoderno che Jerzy Skolimowski rivolge all’indeterminatezza del contemporaneo, la parte più consistente – e di maggiore successo presso le platee e i festival occidentali – della cinematografia polacca più recente pare accomunata da un unico, decisivo minimo comun denominatore, ovvero la propensione a rivisitare col beneficio del senno di poi le grandi transizioni socio-politiche del Novecento che ne hanno scandito progressivamente la metamorfosi da satellite sovietico allo Stato progredito di oggi.



Dalla rievocazione del massacro di Katy? e dai biopic su Lech Walesa e su Wladyslaw Strzeminski con cui Andrzej Wajda ha chiuso la propria carriera alla fase di destalinizzazione di Ida e de Il ragno rosso, senza dimenticare l’occupazione nazista di In Darkness e le sue immediate conseguenze di Agnus Dei, il passato, più che una terra straniera, sembrerebbe costituire l’approdo più sicuro per molta produzione locale. Una tendenza indubbiamente stimolante sul piano divulgativo e certa fonte di dibattito per lo spettatore meno familiare con gli eventi che hanno segnato Varsavia e la sua periferia, ma anche un modo per archiviare il presente e per ripercorrere, il più delle volte senza la dovuta originalità, contesti e realtà che la Storia ha già giudicato e su cui ha già posto un chiaro, indelebile sigillo.

È quindi da un’altra data altrettanto inequivocabile ed emblematica, il 1990, anno zero della Terza Repubblica di Polonia, che partono i presupposti de Le donne e il desiderio, ritratto multigenerazionale della condizione femminile est-europea all’ombra di una cortina di ferro in via di smantellamento: la cifra stilistica del trentaseienne Tomasz Wasilewski non potrebbe essere più programmatica, ossia tessere una trama di pulsioni represse e di passioni incontrollabili sotto una cappa di assoluta, raggelante freddezza espressiva, calando la sua ronde di sommovimenti emotivi da mélo sotto le luci plumbee e i toni desaturati di quell’Oleg Mutu che, a partire dall’esordio nel lungometraggio con La morte del signor Lazarescu di Cristi Puiu e affermandosi come l’uomo di fiducia di Cristian Mungiu, ha contribuito in primissima persona a plasmare l’identità estetica della New Wave rumena.

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C’è però un contraltare notevole a una ricerca formale, ancorché abusata, sostanzialmente indovinata e coerente, ed è paradossalmente quell’apparato narrativo che, invece, ha decretato la fortuna del film alla penultima Berlinale: non giova, per cominciare, la schematica suddivisione in blocchi, che esaspera lo stampo aneddotico dell’insieme e riduce i propri personaggi a rigida sineddoche, dalla mogliettina frustrata che freme per un adulterio impossibile all’eterna concubina in perenne, inutile attesa della legittimità coniugale, dalla lesbica attempata e sfiorita al suo irraggiungibile, incosciente oggetto delle sue attenzioni, declinazioni analoghe e complementari di quella stessa latente smania di vivere destinata a sfociare nell’afflizione o nella tragedia.

Ne risulta un affresco talmente compendiario e a suo modo ambizioso in cui Wasilewski finisce per mettere davvero troppa carne al fuoco, col rischio che il carattere aperto delle sue storie denunci più che altro una scarsa convinzione sul modo di tirare le fila del racconto, preferendo imprimere brusche (e spesso implausibili) virate e accelerazioni che, alla lunga, rendono il ritmo discontinuo e traghettano le vicende verso conclusioni tronche e affrettate, sfoderando trucchetti strutturali più furbi che efficaci – gli andirivieni temporali, il dipanarsi degli intrecci, i giochi di prospettiva – e lasciando stagnare le situazioni nell’ovvio e nel prevedibile.

Così, a piccole, interessanti notazioni di costume, come il sottobosco del videonoleggio che cela un traffico di filmini porno amatoriali o il ruolo preponderante del cattolicesimo come scappatoia dalla mestizia del quotidiano, si alternano ampi nuclei di banalità e di genericità riscattati solo da saltuarie trovate visive – l’amplesso confinato a un irrisorio angolo dello schermo, lo spietato campo lungo sul lago ghiacciato, il piano frontale sul pianerottolo trasformato in gabbia dalle ringhiere –, ma l’impressione è che Wasilewski si faccia sfuggire spesso la mano al punto da crogiolarsi nel degrado e nella desolazione della sua rappresentazione.

Lo testimonia soprattutto il terzo episodio, che passa dal patetismo più sfacciato (la sequenza del valzer, in primis) a dosi inaccettabili di cinismo, come l’ininterrotta, agghiacciante scena di stupro ripresa in bella mostra e il rinvenimento con pianto e vomitata in camera fissa di sguincio, momenti di forzata impassibilità che, più che alla riguardosa distanza degli Haneke e del modello dichiarato de La pianista, rimandano alla crudeltà e alla disumanità degli Ulrich Seidl. È un cinema compassionevole esclusivamente nelle intenzioni, squallido per il puro gusto di esserlo, così inconsapevolmente insensibile da confondere il desiderio con la patologia e da sfiorare la misoginia – basti pensare all’intero secondo atto, che culmina in excursus gratuiti come la sveltina nel bagno pubblico e in una sfuriata domestica che pare uscita dalla trilogia di Paradies –, tanto vuoto e piatto da rendere necessaria la metafora più trita, dalle tristi lezioni di aerobica in cui il pop statunitense funge da ironico contrasto alla giungla artificiale fra le quattro mura di casa in cui svolazzano libere miriadi di uccelli.

Un cinema, insomma, che si vorrebbe problematico e, stando alle parole dell’autore, radicato nella forza delle emozioni, ma che riesce a dimostrarsi soltanto monocorde, manipolatorio e privo di scrupoli, così insistito nella sua manifesta sordidezza da non riuscire a nascondere la sua essenza artefatta e insincera di film a tesi.

Voto 4.5

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