Prisoners

Di
Share

Keller (Hugh Jackman) è quello che molti definirebbero un uomo solido.
Marito devoto e buon padre di famiglia, vive nella provincia americana, porta il figlio maggiore a caccia di cervi e tiene in cantina scorte di viveri per qualsiasi evenienza.
Keller sembra quasi avere una risposta a tutto, ma quando Anna, la sua bambina di sei anni, scompare nel nulla insieme all’amica del cuore, molte delle sue certezze cominciano a vacillare e, di fronte alle lungaggini investigative del detective Loki (Jake Gyllenhaal), l’uomo decide di farsi giustizia da solo. Sequestra quindi l’unico sospettato del rapimento delle bambine, fermamente deciso a fargli confessare la verità. Con qualsiasi mezzo.
Di qui in avanti giuro che non svelo più nulla di una trama piuttosto articolata, che riserva ben più di un colpo di scena.



E’ uno strano oggetto Prisoners. Strano e affascinante.
Quello che, all’apparenza, sembra un thriller tutto sommato ordinario si rivela, nell’arco delle sue due ore e mezza di durata, come qualcosa di molto più complesso. Perché questo film è, a tutti gli effetti un cavallo di Troia lasciato entrare di soppiatto nel cinema mainstream americano. Il canadese Denis Villeneuve (La donna che canta, Enemy), in questa sua prima incursione statunitense, finge infatti di piegarsi agli standard hollywoodiani confezionando quello che, a uno sguardo distratto, potrebbe apparire come un qualsiasi thriller scritto da Dennis Lehane, per poi andare a firmare un’analisi lucida quanto spietata dell’America di oggi. Delle sue troppe insicurezze e nervi scoperti, rappresentati qui dal più classico dei working class hero (la scelta di Hugh Jackman per questo ruolo è felicissima) che recita il Pater Noster prima di mettere un fucile in mano al figlio e crede di poter sopravvivere a qualsiasi minaccia esterna semplicemente attraverso l’accumulo di generi di prima necessità, ma che non è affatto preparato all’idea che la minaccia possa non provenire dall’esterno, bensì celarsi all’interno della propria comunità.

Indipendentemente dal suo côté politico, Prisoners è una ballata dolentissima in cui non c’è spazio per gli eroi, ma solo per le debolezze. Ed è soprattuto un lavoro in cui i prigionieri a cui fa riferimento il titolo sono tutti i protagonisti, non solo le bambine rapite.
Keller è prigioniero, della sua sete di verità e di vendetta, e lo è sua moglie (Maria Bello) che, sopraffatta dallo shock del rapimento, cade ben presto vittima di depressione e abuso di tranquillanti.
Anche il detective Loki (un Gyllenhaal più convincente che altrove) è prigioniero: di un passato che, nonostante non venga mai rivelato, si percepisce dai suoi tic facciali e dai tatuaggi di cui è ricoperto

Ciò che piace di Prisoners è il suo incedere lento e sinuoso e il modo in cui Villeneuve sembri non interessarsi particolarmente agli snodi cruciali dell’indagine – quasi come se la semplice soluzione del caso non fosse poi così importante – quanto ai cambiamenti progressivi delle persone coinvolte in eventi che esulano dall’ordinario.
Quello che rimane maggiormente impresso, alla fine, non è tanto la scoperta del colpevole, quanto una scena conclusiva di raggelante bellezza, accompagnata dalla voce tremula di Thom Yorke dei Radiohead in sottofondo.

Voto 7

Share

Comments

About author

Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

Leave a reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *

+ 23 = 26

Per offrirti il miglior servizio possibile il sito utilizza i cookie. Proseguendo la navigazione, ci autorizzi a memorizzare ed accedere ai cookies di questo sito web. Leggi l'informativa

The cookie settings on this website are set to "allow cookies" to give you the best browsing experience possible. If you continue to use this website without changing your cookie settings or you click "Accept" below then you are consenting to this.

Chiudi