Venezia 71 – Giorno 8 – Video

Di Andrea Bosco
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Nils Westblom, Roy Andersson e Holger Andersson

Nils Westblom, Roy Andersson e Holger Andersson

E’ fatta: con lo svedese A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence si completa idealmente quel palmarès che molti di noi vorrebbero sentire annunciato questo sabato: la tappa conclusiva della “Trilogia sull’essere umano” firmata dal settantenne Roy Andersson è finalmente la giusta occasione per rivelare una volta per tutte una delle personalità più inesplicabili e complesse della cinematografia internazionale. In un percorso professionale a metà fra quello di Terrence Malick e quello di Michael Cimino, lo svedese esordisce a 27 anni con l’acclamato e premiatissimo A Swedish Love Story, ma dopo una grave depressione e il disastro di Giliap (1975) decide di rifugiarsi nel mondo della pubblicità, realizzando centinaia di spot nell’arco di un quarto di secolo. Torna al cinema soltanto nel 2000 con la celebrata resurrezione di Canzoni del secondo piano, che si aggiudica il Prix du Jury a Cannes, e, sette anni dopo, con You, the Living, fissando stilemi, espressioni e codici diventati oggi fra i più distintivi di tutta l’arte filmica europea contemporanea.

Fra le inquadrature fisse ortogonali disposte sconnessamente al montaggio, gli interpreti dal viso cereo, i colori glaciali e smorti e gli intermezzi musicali pizzicati che abbiamo imparato a riconoscere e ad amare, il film di oggi chiude con una nota ancor più dolente, frammentaria e assurda quella riflessione sulla condizione umana iniziata da Andersson con il suo ritorno sulle scene, e ne è inevitabilmente l’apice creativo e teorico. Fra commessi viaggiatori di articoli umoristici che sembrano morti viventi, sovrani settecenteschi che bevono acqua minerale in un café di periferia, ballerini di flamenco male assortiti, capitani di marina che si reinventano parrucchieri, bariste zoppe di Göteborg che vendono grappini in cambio di baci nel 1943 in uno squarcio cantato e giorni della settimana che cambiano a caso di fronte a un rivenditori di biciclette, c’è spazio per un ritratto della dimensione umana di incredibile potenza e di infinita suggestione (indimenticabile e ipnotico l’enorme carillon in fiamme pieno di prigionieri della guerra boera), uno zibaldone vignettistico da cui lasciarsi catturare e in cui perdersi fra mille insondabili spunti.
Ad oggi, Roy Andersson è il candidato più forte al Premio per la Migliore Regia.



Moon Sori, protagonista di Jayueui Onduk

Moon Sori, protagonista di Jayueui Onduk

Rispettivamente in Orizzonti e nelle altrimenti incostanti Giornate degli Autori è il turno di due concorrenti fra i più promettenti delle loro sezioni – occhio ai riconoscimenti finali -: il coreano Jayueui onduk (Hill of Freedom) è la consueta deliziosa miniatura del prolifico Hong Sang-soo, un girotondo di situazioni sospese fra chiacchiere imbarazzate e/o intontite dell’alcol girato con l’usuale levità sospesa dei piccoli narratori del quotidiano. L’indiano Asha Jaoar Majhe (Labour of Love), dell’esordiente (e in odore di Premio de Laurentiis) Aditya Vikram Sengupta è un piccolo miracolo a metà fra Lunchbox e il cinema di Robert Bresson, un racconto microscopico interamente affidato agli oggetti, ai dettagli, ai movimenti manuali e al silenzio – una moglie che lavora di giorno prepara un lauto pasto al marito coi turni di notte -, spiazzando e sfidando la platea (che infatti ha rumorosamente, gradualmente abbandonato la sala) con un’opera rigorosissima e di grande fascino, cui si possono perdonare tutte le sbavature del caso (il pre-finale in sepia che somiglia alla réclame di un profumo) e che offre uno sguardo notturno e per certi versi profondamente politico sull’India di oggi lontanissimo dagli schemi bollywoodiani cui siamo abituati.

Kaan Mujdeci, Dogan Izci e Muttalip Mujdeci

Il breve Sivas avrebbe dovuto sparigliare le carte presentando in pompa magna l’unico esordiente assoluto del Concorso, il turco Kaan Müjdeci, ma gli entusiasmi previsti sono decisamente più contenuti: sotto l’occhio dell’undicenne Aslan – “leone”, guarda un po’, nella lingua di Istanbul – si apre una visuale cruenta e brutale della provincia anatolica, nella quale efferati combattimenti fra cani sono i principali centri di aggregazione e il simbolo di un alternarsi di leadership e di potere trascinato dalla violenza.

Il piccolo, spietato Dogan Izci è un protagonista perfetto e lontanissimo dalla passività dei bambini di zavattiniana memoria (e infatti il Premio Mastroianni andrà a lui), l’operazione è senza dubbio interessante e nuova, ma Müjdeci paga il prezzo di una inevitabile acerbità – abbastanza generosa l’inclusione nella sezione principale -, sembra quasi perdere di vista il film nella parte centrale e si regge fin troppo su un linguaggio di rara aggressività tanto nelle immagini (tanto credibili da suscitare alla fine ridicole escandescenze da parte di animalisti infuriati) quanto nelle parole.
Un esordio promettente comunque, ma niente che sposti di una virgola l’andamento della competizione.

Le dernier coup de marteau

Quando poi i giochi sembravano fatti, ecco che Venezia ci tira un bello scherzo: Le dernier coup de marteau ha tutte le carte in regola, nel bene e nel male, per mettere d’accordo critica, pubblico e giuria, nonché per aggiudicarsi praticamente al 100% la vittoria finale. L’opera seconda della quarantacinquenne Alix Delaporte – promossa alla Serie A dopo quell’Angèle et Tony incluso nella Settimana della Critica a Venezia67 e distribuito regolarmente in sala in Italia – è un racconto di formazione dolcissimo, lieve e coinvolgente, una storia d’amore, di crescita e di malattia divisa fra sinfonie di Mahler e spoglie roulotte nelle comunità gitane in Camargue, fra padri naturali direttori d’orchestra e madri condannate dal cancro, tutto condotto senza leziosità o toni ricattatori, ma con un pudore corroborante lontanissimo dagli schemi da lacrima-movie che era prevedibile aspettarsi. Ne esce una tenera dichiarazione d’amore nei confronti dell’Arte come evasione e come scoperta di sé – e, se si considera che si parla di musica, il Presidente di Giuria Alexandre Desplat non rimarrà di certo indifferente -, 82′ di pura e disarmante emozione che di certo non rappresenteranno l’apice di Venezia71 (Martone, Oppenheimer ed Andersson rimangono lassù, irraggiungibili), ma che, conciliando ambizioni e cuore, finiranno di sicuro per mettere le mani sul Leone d’Oro.

Il nuovo centro della Settimana della Critica, poi, il tedesco Zerrumpelt Herz, chiude una bella mattinata con un’inquietante discesa nella natura ostile, primitiva e selvaggia e, curiosamente, di nuovo fra i tormenti e gli echi della creazione musicale, lanciando il trentenne di belle speranze Timm Kröger fra le più auspicabili promesse di Berlino e dintorni.

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