Take Five

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Sasà (Salvatore Striano), un idraulico col vizio del gioco e debiti che nessun uomo onesto potrebbe pagare, viene chiamato a riparare una perdita fognaria all’interno di una banca, a pochi metri dal suo caveau.
Da lì a pensare di rapinarla il passo è piuttosto breve.
Coinvolge quindi nel colpo un ricettatore, un fotografo cardiopatico, un pugile squalificato a vita e, dulcis in fundo, un gangster depresso appena uscito di galera conosciuto da tutti come O Sciomèn (Peppe Lanzetta).
I cinque non hanno nulla in comune se non la voglia di riscattare vite ai margini attraverso i soldi facili.
Qualcosa però va storto e, quando uno di loro sparisce con la refurtiva, gli altri si logorano nell’attesa, lasciando che l’avidità e i reciproci sospetti portino a galla il peggio di loro.
Nasce così un sottile gioco al massacro di alleanze fatte e disfatte nel giro di una notte, complicate dall’arrivo improvviso di un boss della mala locale, misteriosamente a conoscenza della rapina e desideroso di entrare in possesso del bottino.



A due anni da Là-bas, Guido Lombardi torna a raccontare la Napoli più cupa e criminale con questo bel noir corale, presentato in concorso lo scorso anno al Festival Internazionale del Film di Roma.
Lo fa abbandonando ogni residuo di pretesa documentaristica presente nell’opera precedente per lasciarsi andare del tutto alle regole di uno dei generi più codificati del cinema classico e il risultato è questo gioiellino di stile ed equilibrio, a cominciare da una sceneggiatura (opera dello stesso Lombardo) ricchissima di colpi di scena e assai abile nell’alternare registro comico e tragico senza sceglierne mai uno in via definitiva, così costantemente in bilico tra I soliti ignoti e Le Iene.
Uno dei pregi maggiori di Take Five risiede proprio nel suo dichiarare apertamente ogni suo debito, a partire già dal titolo, chiaro riferimento all’improvvisazione jazzistica (è il titolo di un disco di Dave Brubeck) che qui rivive nella libertà con cui Lombardi permette ai suoi attori di improvvisare su questi personaggi così acciaccati e diversi tra loro – un po’ come navigati musicisti che salgono su un palco senza avere la piena consapevolezza di ciò che andranno a suonare – in una sorta di curioso Aspettando Godot partenopeo che scorre sinuoso per tutta la sua durata fino a un tesissimo finale che non si pone alcun problema nel rielaborare l’epilogo del succitato debutto di Tarantino.

La stessa sicurezza nei proprio mezzi è evidente nello stile di regia, secco per esigenze narrative ma, allo stesso tempo, capace di guizzi notevoli che conferiscono al film una raffinatezza visiva che fa da piacevole contrappunto ai i volti duri dei suoi protagonisti, così segnati e vissuti (alcuni degli attori hanno realmente un passato di vita criminale alle spalle) e regala allo spettatore una Napoli rarefatta e stilizzata, mai oleografica e raramente così inquietante e priva dei suoi più abusati cliché estetici.
E’ un po’ l’altra faccia – quella meno leggera per intenderci – di Song ‘e Napule (curioso che siano stati presentati entrambi nel corso dello stesso Festival) pur con i dovuti distinguo del caso: laddove i riferimenti dei Manetti Bros erano più legati alla tradizione poliziottesca ibridata con la commedia, Lombardi punta più in alto, guarda coraggiosamente oltreoceano e quando strappa una risata (alcune scene, complice l’uso colorito del dialetto napoletano, sono davvero esilaranti) lo fa attraverso il ricorso al registro grottesco.
Ciò che piace di questo Take Five è il suo cercare una via italiana citando (senza mai scimmiottare) i capisaldi del genere e, cosa ancora più importante, raccontando una semplice storia senza cadere nell’insidiosissima trappola dell’analisi sociologica un tanto al chilo in cui autori parecchio più blasonati del bravo Guido Lombardi sovente cadono.

Voto 7

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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