Exodus: Dei e Re

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Dopo il dimenticabile The Counselor, Ridley Scott torna su un terreno a lui decisamente più congeniale, quello del peplum, genere che nel 2000 ha saputo rilanciare con uno dei kolossal di maggior successo di sempre, Il Gladiatore. Ed è proprio alla luce della pellicola con Russell Crowe che Exodus: Dei e Re va inquadrato. E’ chiaro sin dalla prima scena infatti che Scott non aveva alcuna intenzione di raccontare l’Esodo a modino, riportando fedelmente quello che è scritto nella Bibbia, ma che piuttosto voleva trovare un nuovo ambizioso progetto da dirigere, che fosse in grado di rievocare e, perché no, anche di bissare, il successo ottenuto con Il Gladiatore: la storia di un personaggio forte ma modesto, leader carismatico e leale in grado di guidare le masse alla ribellione nei confronti di un tiranno.



Mosè (Christian Bale), principe d’Egitto, ebreo di nascita, cresciuto e allevato nella casa del faraone Sethi assieme al figlio legitimo, nonché futuro faraone Ramses (Joel Edgerton), scopre di essere il condottiero che realizzerà il più grande progetto divino della storia dell’umanità: l’esodo del popolo ebraico, schiavo da 400 anni, verso la terra promessa. Un viaggio che porterà Mosè a scontrarsi ripetutamente contro quello che prima era per lui come un fratello, affrontando pericoli, guerre, carestie e pestilenze. La fuga dall’Egitto sterminato dalle piaghe attraverso il deserto e le acque del Mar Rosso, fino ad arrivare alla consegna delle tavole dei dieci comandamenti sul monte Sinai.

Massimo Decimo Meridio era il generale che diventò uno schiavo e lo schiavo che diventò un gladiatore, più o meno quello che è Mosè, con i dovuti distinguo. Se lì c’era l’imperatore Marco Aurelio che, a un passo dalla morte, decide di affidare il potere nelle mani del generale Maximo, qui c’è il faraone Seti (John Turturro) che confessa a Mosè di preferirlo al figlio legittimo Ramses (un bravissimo Joel Edgerton). Lì l’allontanamento dell’eroe dal suo popolo passava attraverso la schiavitù e il successivo addestramento da gladiatore di Massimo, qui invece attraverso il periodo in cui Mosè conosce e sposa Zippora e vive da pastore alle pendici del monte Oreb, immediatamente prima che Dio gli si palesi sotto forma di un bambino capriccioso.

Nelle due ore e mezza di durata di Exodus, assistiamo ad allestimenti impressionanti, scene mozzafiato (concentrate per lo più nella seconda parte della pellicola), un suggestivo 3D che non è mero strumento tecnico, ma conferisce profondità e intensità a gran parte della storia e poi a numerose scelte sbagliate che inevitabilmente compromettono il risultato finale. Tra queste un Mosè in piena nevrosi, guidato da un Dio bambino dall’indole determinata e piuttosto vendicativo e una rappresentazione del popolo egiziano eccessivamente patinata che vira talmente al kitsch da far sembrare I 10 Comandamenti di Charlton Heston una ricostruzione obiettiva di quel periodo storico.
Ma quello che funziona meno in Exodus: Dei e Re sono i dialoghi. Sceneggiata da Steven Zaillian, Oscar per Schindler’s List che già aveva lavorato con Scott per Hannibal e American Gangster, la pellicola da 140 milioni di dollari di budget sprofonda in alcuni punti proprio quando la macchina da presa stringe sui volti degli attori, passando dall’universale al particolare, soffermandosi su dei siparietti familiari francamente inascoltabili. Ed è un gran peccato perché questa volta speravamo proprio di poter ammirare ancora una volta lo sguardo prezioso, esperto e consapevole del regista inglese al fianco del suo indiscutibile reparto tecnico non solo per venti minuti, ma per tutto il film.

Voto 5

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Carolina Tocci

Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.

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