Youth – La giovinezza

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Quello che si gira dopo aver vinto un Oscar è spesso il film più difficile della carriera: devi dimostrare che quella statuetta non ti è finita tra le mani per caso e che i tuoi prossimi progetti non dovranno essere visti in funzione di quello che è stato ufficialmente riconosciuto come il tuo più grande successo. Paolo Sorrentino ha fatto la cosa giusta, tentando di archiviare definitivamente il capitolo grande bellezza, buttandosi a capofitto in una storia diametralmente opposta anche se per certi aspetti molto simile a quella con protagonista Jep Gambardella.



Due vecchi amici, il direttore di orchestra in pensione Fred Ballinger (immenso Michael Caine) e il regista cinematografico Mick Boyle (Harvey Keitel) che, con uno stuolo di giovani sceneggiatori, è alla ricerca di un finale per il suo film-testamento, si ritrovano, come ogni anno, a trascorrere una vacanza in un sanatorio svizzero alle pendici delle Alpi, cattedrale nel deserto e piccolo specchio di un mondo kafkiano e surreale. Tra cure termali e ricordi che affiorano, malinconici, dal passato, le vite di Fred e Mick si incroceranno con quelle degli altri ospiti della struttura. Tutti piuttosto bizzarri: l’attore hollywoodiano con l’ego trafitto (Paul Dano), ricordato da tutti solo per aver interpretato Mr Q in un blockbuster di robot (quanti rimandi al personaggio di Michael Keaton in Birdman!); l’alpinista che cerca di conquistare la figlia di Fred (Rachel Weisz); il monaco tibetano esperto in levitazione, la coppia matura che non scambia una parola, la ex stella del cinema che ora, per convenienza, ha sposato la TV (Jane Fonda), un mito del calcio che fu, ora costreto a portarsi dietro l’ossigeno e una sensualissima Miss Universo (Madalina Ghenea).

Youth, dicevamo, in un certo senso è una costola de La grande bellezza. Appurate le evidenti similitudini rintracciabili nei due personaggi protagonisti, lo è soprattutto nel mettere in scena quella danza del doppio che nel film del 2013 veniva rappresentata dal sacro e dal profano, dal bello che non richiede altro se non di essere contemplato, contrapposto alla rumorosa volgarità immanente nella società di oggi. In Youth questa propensione al dualismo viene portata avanti dalle differenze che contraddistinguono i due anziani amici: Caine è un uomo che ha vissuto per la musica, ora del tutto abbandonata, viene dipinto dalla figlia come un padre anaffettivo e distaccato ed è un profondo sostenitore della sopravvalutazione delle emozioni. Keitel, invece, indossa un personaggio decisamente più tronfio e leggero, di un regista avanti con gli anni ma ancora attaccato al suo lavoro, animato ancora dal forte bisogno di un nuovo progetto a cui dar vita. Da qui, spazio alle riflessioni: sulla giovinezza e sulla vecchiaia, sul passato e sul futuro, sul rapporti tra genitori e figli, sull’amore, sull’amicizia, su quello che rimane e su quello che è stato.

Battute didascaliche, dialoghi scolpiti nella pietra e monologhi toccanti (uno su tutti, quello affidato a Rachel Weisz che si sfoga con Caine mentre sono entrambi ricoperti di fango) riempiono una sceneggiatura scritta da un Sorrentino che l’Oscar sembra aver reso più edotto e consapevole, questa volta in solitaria senza il contributo di Umberto Contarello (This Must be the Place, La grande bellezza). Ed è proprio nella scrittura che salta fuori tutta la napoletanità dell’autore, per quel modo di chiudere uno scambio di opinioni con una battuta e per quella fissazione, ormai divenuta uno dei suoi marchi di fabbrica, di immortalare alcuni personaggi in contesti elevati per farli precipitare nel vuoto di una situazione decisamente più bassa nell’inquadratura successiva. Il lirismo interrotto dal volgare. D’altro canto ormai appare chiaro quanto Sorrentino ami giocare con antitesi e ossimori, tanto nei titoli quanto nei contenuti delle sue opere.

E poi, naturalmente, c’è la musica, altra immancabile protagonista del cinema sorrentiniano, con i brani di David Lang, quelli di Sun Kil Moon (con Mark Kozelek che vediamo anche in una scena del film), e Dirty Hair di David Byrne. Insieme all’estetismo puro, alla grazia delle immagini plasmate in modo ineccepibile dalla maestria di Luca Bigazzi nelle quali si muovono Caine, Keitel e gli altri, protagonisti perfetti di un mondo racchiuso in un non luogo idilliaco e silenzioso, la cui quiete viene rotta solo dallo sfregamento di una carta di caramella tra le dita. E’ nei venti minuti finali che la materia quasi impalpabile ed eterea di cui è composto Youth inizia a deteriorarsi sotto i colpi di una strana frenesia che sembra cogliere improvvisamente Sorrentino il quale, di punto in bianco, decide di risolvere credibilmente tutte le trame tessute fino a qual momento. Scelta che lascia un po’ di stucco, soprattutto perché, fino a un attimo prima il suo sembrava essere un inno al manchevole e all’incompiuto. Se il Sorrentino regista ormai ha ben poco da dimostrare, qui è il Sorrentino sceneggiatore ad aver perso qualche colpo.

Voto 7

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Carolina Tocci

Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.

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