La regola del gioco

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È anche dagli episodi più conosciuti e dalle loro risoluzioni di dominio pubblico che un cineasta esperto può riuscire a tessere una coinvolgente rete di intrighi e mantenere una tensione costante fino alla fine: si pensi al Lincoln spielberghiano, capace di mimetizzare con un appassionante climax fatto di capovolgimenti e macchinazioni un esito stranoto persino ai meno informati, o al coevo NO di Larraín, altrettanto abile a subordinare l’ineludibilità della realtà alla creatività e alla vivacità della narrazione.



Se il racconto, d’altro canto, arriva a vivere esclusivamente in virtù di se stesso e a farsi boriosamente scudo della propria veridicità, il patto tacito fra il film e il pubblico si infrange, la storia scade in mera didascalia e a subentrare sono soltanto noia e disinteresse: è ciò che accade ne La regola del gioco, thriller cospirazionistico a cavallo fra il cinismo dell’era Reagan, l’ipocrisia dell’amministrazione Clinton e l’omertà dei nostri giorni, compitino generico e sommario quanto il titolo scelto da una distribuzione italiana tardiva, alla disperata ricerca di fondi di magazzino per il mercato estivo ed evidentemente immemore dell’omonimo capolavoro di Jean Renoir.

Le indagini compiute dal giornalista californiano Gary Webb (Jeremy Renner) e la sua battaglia solitaria per svelare i retroscena politici dell’epidemia del crack che attraversò gli Stati Uniti nel corso della Rivoluzione Sandinista in Nicaragua si sviluppano lungo binari stancamente programmatici e scanditi dai più antidiluviani cliché del genere, dalla minaccia sorniona e subdola dei servizi segreti in divisa di ordinanza alla macchina del fango a base di indiscrezioni pruriginose operata dai media per disinnescare l’emergenza, dalle varie tappe di graduale isolamento del malcapitato protagonista, ridotto, anche per colpa di un interprete monodimensionale come Renner, a puro concentrato di santimonia e di antagonismo spicciolo, fino al sostegno problematico ma incrollabile della famigliola, mogliettina gelosa (Rosemarie DeWitt) in testa.

Se il piccolo schermo non ci avesse progressivamente abituato a nuovi standard di eccellenza, La regola del gioco potrebbe definirsi un progetto di impianto prettamente televisivo, penalizzato dalla mano invisibile di un mestierante fattosi le ossa essenzialmente come regista di pilot (Dexter e Homeland, nientemeno), interessato principalmente, in mancanza d’altro, a stordire lo spettatore con un cast inutilmente affollato di facce note in scena per non più di cinque minuti, fra revenants degli anni novanta (Andy García e Ray Liotta, entrambi pietosi) e tappezzeria esotica buttata criminalmente via (la fatalona Paz Vega e lo spaesato Michael Sheen).

Più che all’inesperto Michael Cuesta, però, pare sensato ricondurre la paternità dell’opera allo sceneggiatore Peter Landesman, reporter d’assalto votatosi al cinema dopo l’esordio dietro la cinepresa di Parkland (passato inspiegabilmente in concorso, peraltro, a Venezia70), da cui sarebbe stato pertanto più lecito aspettarsi uno sguardo più attendibile e meno sbrigativo tanto sui meccanismi redazionali, quanto sulle quinte del potere, qualcosa di più autentico sul rischio della missione del divulgatore e di meno ovvio degli ormai assodati segreti di Pulcinella sulla cascata di calunnie che lo investe, una figura che non evolve mai in un personaggio completo e davvero controverso, ma che resta caratterizzato solo in veste di modello cristologico o di implausibile guascone idealista fino all’incoscienza (terribile il montage della stesura dell’articolo con Know Your Rights dei Clash in sottofondo).

La regola del gioco è quindi un’ulteriore, pleonastica dimostrazione del fatto che per rendere un film necessario non sono sufficienti le buone intenzioni – basti ricordare il pessimo Milk di Van Sant -, che il linguaggio filmico non può e non deve eclissarsi e annullarsi di fronte a una causa, per quanto giusta sia, e che per certi semplicistici, sensazionalistici comizi, più che la sala, è adatta la piazza.

Voto 3

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