37° Festival di Mosca – Giorno 1

Di Andrea Bosco
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È una partenza minata da incertezze, esitazioni, ripensamenti e scelte insondabili, quella del 37° Festival Cinematografico Internazionale di Mosca, in un clima di precarietà e di indeterminatezza che ha visto un programma annunciato con tangibile ritardo, fortemente ridimensionato in quanto a partecipazioni e rimaneggiato fino all’ultimo momento: rispetto alle 250 pellicole spalmate su dieci giorni di manifestazione, quest’anno ci si dovrà accontentare di appena 150 ospiti competitivi e non concentrati in una settimana esatta di proiezioni, venendo a fronte di un pugno di assenze davvero pesanti.

Quella più clamorosa è certamente quella della vetrina sulla Croisette, da sempre componente irrinunciabile della rassegna (a figurare in calendario del 2014 erano i Dardenne, Ceylan, Wenders, Sissako, Loach e persino Godard) e per questa volta esclusa (o esclusasi) in blocco, fatta eccezione per il gradito contentino di An della giapponese Naomi Kawase (film d’apertura dell’ultimo Un certain regard) per l’annuncio dato stamani a sorpresa dell’arrivo di Love di Gaspar Noé, forse il titolo più spernacchiato di Cannes2015; delusi dai “non, merci”, ci si potrà comunque rifare con i numerosi “jawohl” ricevuti dal Filmpalast, se si considera che dall’ultima Berlinale accorreranno in massa tanto l’Orso d’Oro (Taxi di Jafar Panahi), l’Orso d’Argento (El club di Pablo Larraín) e il Premio alla Sceneggiatura (El botón de nácar di Patricio Guzmán), accompagnati da altri titoli di peso rimasti fuori dal palmares, dal vietnamita Cha và con và a Diario di una cameriera di Benoît Jacquot, da Eisenstein in Messico di Peter Greenaway a Knight of Cups di Terrence Malick.



Pochi innesti, invece, dall’ultima Mostra di Venezia, presente con lo straordinario The Look of Silence di Joshua Oppenheimer, con il mediocre Premio Speciale Sivas, inserito nella vasta retrospettiva dedicata alla cinematografia turca di ieri e di oggi, l’agghiacciante Pasolini di Abel Ferrara e la presa in giro di Realité di Quentin Dupieux.

A precedere l’inaugurazione ufficiale, affidata all’inconsistente L’ultimo lupo di Jean-Jacques Annaud, scelta dettata esclusivamente dalla partecipazione del regista Jean-Jacques Annaud in veste di Presidente di Giuria, arriva a quasi mezzo secolo dalla storica, infuocata versione di John Schlesinger una nuova trasposizione di Via dalla pazza folla di Thomas Hardy: nelle mani del danese Thomas Vinterberg (Festen, Il sospetto), il baricentro si sposta dall’apologo proto-femminista di allora – in fin dei conti, mancavano solo pochi mesi al Sessantotto e le radici di Schlesinger affondavano nel Free Cinema – alla parabola fatalista di oggi, esasperando la fragilità e la mutevolezza dei suoi personaggi scossi imperscrutabilmente dal Caso, animati dalla costanza delle passioni e dalla volubilità della fortuna, dall’orgogliosa irrequietezza della proprietaria terriera Bathsheba (Carey Mulligan) agli antitetici rapporti con i tre uomini della sua vita, l’amore romantico per l’allevatore in disgrazia Gabriel (Matthias Schoenaerts), quello sensuale per il sergente Troy (Tom Sturridge) e quello di matrice prettamente sociale per il possidente Boldwood (Michael Sheen).

L’adattamento, fedele e ipertradizionalista, scongiura l’effetto “telenovela di lusso” evitando il sentimentalismo in favore di un più ponderato approccio da ballata pastorale, ottiene il meglio dall’alchimia fra i suoi interpreti, tutti azzeccatissimi (se Schoenaerts è virilità allo stato puro e fisicamente perfetto per il ruolo, Sheen, amabile ibrido di insicurezza e di patetismo, è da applausi), e se è anche vero che condensare certi passaggi lasciati inviolati nell’assai più lunga edizione del 1967, in particolare la sottotrama incentrata sui tormenti della povera Fanny Robin (Juno Temple) e il redde rationem del pre-finale, anticlimaticamente smorzato e affrettato, si è rivelato controproducente,  lo spirito del romanzo ne esce rafforzato e reso con notevole sensibilità, perfettamente calato nella natura ora benigna, ora matrigna delle colline del Dorset, idealmente equidistante dal raffinato accademismo della Campion di Ritratto di signora e dall’insistito, crudo realismo del Cime tempestose di Andrea Arnold.

Rosita

Partenza mediamente positiva anche per il Concorso, avviato dal serbo Enklava e dal danese Rosita: il primo, faida etnica multigenerazionale scandita da un matrimonio islamico e da un funerale ortodosso sulle montagne del Kosovo, azzecca un’ambientazione da inospitale terra di nessuno ancora geopoliticamente ribollente e tarata, si poggia su un intreccio ben rodato e incalzante, sospinto di volta in volta dalla sua escalation di violenza, fotografa con equilibrio un microcosmo fratricida prigioniero della propria ritualità e della propria arretratezza, e anche se certe sbavature restano evidenti (la direzione degli attori, i molti bambini in primis) lo sguardo del documentarista Goran Radovanovic si segnala per onestà ed efficacia; il secondo imbastisce un curioso triangolo amoroso che vede la giovane domestica filippina del titolo (Mercedes Cabral, volto ricorrente dei film di Brillante Mendoza) contesa dal vedovo cinquantenne Ulrik e dal di lui figlio Johannes (il Mikkel Følsgaard giustamente premiato a Berlino come miglior attore per il suo puerile re di Danimarca di Royal Affair), immettendosi sin dall’inizio su binari abbastanza prevedibili, dal confronto fra la desolazione del rapporto di convenienza e l’irresolutezza dell’innamoramento ai segreti a base di figli nascosti, ma potendo contare su un terzetto di attori molto affiatato e ben diretto dalla quarantenne Frederikke Aspöck, abile a rappresentare l’imbarazzo e l’incomunicabilità di una provincia ingrigita e condannata da nuove regole civili a una felicità di compromesso, con molta delicatezza, senza facili scappatoie da feel good movie e soprattutto con un occhio benevolo e indulgente quanto basta sui suoi protagonisti.

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