Venezia 72 – Giorno 7

Di Andrea Bosco
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Emin Alper -

Emin Alper - Abluka

Il Concorso continua a svilupparsi altalenante, relegando le ultime possibili sorprese a due passi dalla chiusura e affastellando delusioni cocenti che restituiscono l’immagine di poetiche offuscate da maniera e interlocutorietà. Prima di affrontare il disastro della mattinata, però, urge metabolizzare il piccolo sussulto provocato dal notevole concorrente turco, l’opera seconda con cui il quarantenne Emin Alper torna ad affrontare, con tutta la padronanza (ma anche tutta la presunzione) guadagnata con l’esplosivo racconto morale di Tepenin ardi: Abluka prosegue e approfondisce, infatti, quello studio sulla paranoia e sulla progressiva discesa nella follia già fulcro del debutto, amplificandone portata e ambizioni, lucidità e incoscienza, pregi e difetti, tratteggiando il ritratto delle antitetiche e parallele psicosi di due fratelli alle prese con i propri rimpianti (la sindrome da abbandono), le proprie paure (l’incombere della guerra e del terrorismo) e i propri fantasmi.

Quello di Alper è dunque un’inarrestabile caduta nell’ossessione privata che si accompagna all’istantanea di una società martoriata dall’oppressione e dalla minaccia (vere o apparenti che siano), ma rispetto all’equilibrio e alla più centrata parabola universale del debutto, il climax di tensione si fa più sbilanciato e smodato (le allucinazioni puzzano alla lunga di artefatto), l’allegoria più appannata e indistinta (cosa rappresenterebbe la disinfestazione dei cani?), la mano più pesante e calcata. Alper non lesina sulle asperità e sulle spigolosità, dando una forma genuinamente angosciosa e asfissiante al tutto, non temendo di suscitare di scena in scena autentico fastidio e si riconosce il coraggio di un linguaggio già personalissimo sempre più astratto e sintetico, ma questa volta la catarsi non si risolve del tutto e la decifrazione dell’insieme rischia di sfuggire.

Marco Bellocchio e il cast di Sangue del mio sangue

Marco Bellocchio e il cast di Sangue del mio sangue

Decisamente sconfortante, invece, la terza partecipazione italiana alla competizione, quella, oltretutto, da cui era lecito aspettarsi la svolta: con il pastrocchio ribollente di Sangue del mio sangue, Marco Bellocchio attinge a piene mani dal suo catalogo di private ossessioni (la natia Bobbio madre e matrigna, il fatalismo del pensiero religioso, il mistero onirico del quotidiano e quant’altro ancora) e cade in un deliquio senza sbocchi e pericolosamente chiuso su se stesso, un guazzabuglio di misticismo e psicanalisi che, fra streghe, tribunali dell’Inquisizione e reincarnazioni, sembra più che altro l’autoreferenziale versione parodica della crisi de La visione del sabba, derubato però della sua vitale incoscienza e della sua ancora oggi fascinosa suggestione immaginifica, sostituite qui da un microcosmo forzatamente sarcastico di simboli e di situazioni (il vampiro ultracentenario di Roberto Herlitzka, il matto farneticante di Filippo Timi, il truffatore travestito da funzionario di Pier Giorgio Bellocchio), da un ombelicalismo sconfortante (era da anni che Bobbio, “il mondo”, non figurava in misura così soverchiante nell’opera di Bellocchio) e da un’indecisione generalizzata sull’intero progetto – già a partire dal titolo, scelto all’ultimo dopo i provvisori La monaca, La prigione di Bobbio e L’ultimo vampiro – che costituiscono per Bellocchio un notevole, sghembo passo indietro rispetto alla lucidità degli ultimi capolavori.



Anomalisa di Charlie Kaufman

Anomalisa di Charlie Kaufman

Ancor più inaccettabile e irricevibile è l’approdo di Charlie Kaufman all’animazione dopo le sproporzionate smanie autoriali di Synecdoche, New York: con l’alibi di una visionarietà pretestuosa e presunta, lo sceneggiatore Premio Oscar descrive con Anomalisa un breve incontro di intollerabile inconsistenza aggrappato a trovatine facili facili e dal fiato corto che si esauriscono presto (l’idea di un’unica voce che, a voler simboleggiare una massa indistinta e spersonalizzata, doppia tutti i comprimari escluso il love interest del protagonista), montagne di fuffa (le riflessioni tardo-adolescenziali sulla caducità dell’amore, un pallido ricordo delle struggenti incertezze di Eternal Sunshine of a Spotless Mind) e bizzarrie gratuite (era davvero necessario il ricorso alla stop-motion, mai usata a finalità espressive e poetiche?).

Resta l’impressione di un immaginario indie putrefattosi e trasformatosi in posa, a disposizione dell’eclettismo di facciata di una generazione social (che, infatti, l’ha generosamente applaudito) pronta a prendere per oro colato le banalità sconfortanti e l’aria fritta fuoriuscite dalla vena inariditasi di un poeta (solo presunto?) dei sentimenti oggi accontentatosi del ruolo di affabulatore di quart’ordine.

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