La corte

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Per il cinema d’autore francese, la Mostra di Venezia è un terreno insidioso, un campo minato lasciato alla vecchia guardia, alla seconda scelta e alle nuove leve di minor grido, nomi sacrificabili finiti spesso e volentieri in pasto a noi rancorosi cugini d’Oltralpe dal fischio facile: si torni con la mente anche soltanto all’edizione del  2009, con Persécution di Patrice Chéreau e White Material di Claire Denis, i due capolavori della competizione, accolti impietosamente dagli ululati, o a quella del 2014, in cui dalle pernacchie dedicate alla polposa cinquina di rappresentanza riuscì a salvarsi a stento solamente l’ottimo Le dernier coup de marteau di Alix Delaporte. Si pensi ancora al consueto, astioso trattamento riservato a ospiti stoicamente regolari come l’inestimabile Philippe Garrel e il decisamente più meno imprescindibile Benoit Jacquot, o pure al semplice fatto che l’ultimo Leone d’Oro a parlare la lingua di Molière, se si eccettua Film blu del polacco Kieslowski, risalga a ben trent’anni fa.



Se Venezia72 verrà ricordata principalmente per le reazioni fortemente antitetiche suscitate dalla selezione in blocco, è pur vero che l’unica chance per mettere positivamente d’accordo tutti, critica e pubblico, addetti ai lavori e profani, è arrivata proprio dalla dimessa e ridotta compagine transalpina, lontana, per una volta, da quell’allure di congenita spocchia che la accompagna e più tarata sulle aspettative dello spettatore comune (tanto, a differenza del solito, da aver raggiunto facilmente ed estensivamente il mercato nostrano).

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Dopo gli applausi sinceri e per molti versi inaspettati ricevuti tanto al Lido quanto in sala da Xavier Giannoli e dal suo squisito Marguerite, è il turno del compatriota Christian Vincent, che con il suo L’hermine (reso in italiano da un titolo ambiguo ed efficace come La corte) supera brillantemente quella fase d’impasse (ma dal ragguardevole rendimento commerciale) culminata con i deboli Amore a cinque stelle e La cuoca del presidente, e si riappropria di quella piena, consapevole forma autoriale che, con il notevole esordio de La timida, aveva fatto parlare di un possibile secondo Rohmer, confezionando un amabile e rarefatto studio di caratteri basato – come e più che allora – su un’impressione diffusa di sospensione narrativa ricca di pause, interludi e divagazioni, capace di prendersi i suoi tempi mettendosi al servizio delle prestazioni di un cast lasciato decantare e aderire sui lati anche periferici e ininfluenti di un vivacissimo comparto personaggi.

Insostituibile fulcro di questo curioso e discreto melange di courtroom drama e di commedia romantica d’ambiente è infatti il veterano Fabrice Luchini, già protagonista del debutto di Vincent e preziosissimo volto ricorrente di tanti Racconti Morali, qui più sornione e suadente che mai, che si produce in una travolgente performance – incoronata da una sacrosanta Coppa Volpi – alle prese con le idiosincrasie, i tic e l’insanabile senso di solitudine di un severo Presidente di Corte d’Assise, fotografato tanto nel suo ambito pubblico, durante un processo per infanticidio, quanto in quello intimo, nel pieno di un ritorno di fiamma per un’antica infatuazione rispuntata dal passato e capitatagli casualmente come giurata (la Sidse Babett Knudsen di Dopo il matrimonio, premiata con il César).

Il risultato è un lieve e agrodolce ritratto sottilmente impertinente nei confronti dei generi di riferimento – tant’è che sia il chiaro scioglimento procedurale sia quello sentimentale ci sono negati -, che si stempera quindi in una placida, malinconica meditazione sul tempo e sulle occasioni che passano (e che tornano), ma anche in un garbato meta-esercizio sulla coincidenza Arte-Vita sospeso fra i campi medio-lunghi e i toni ruvidi e grigiastri dell’aula (elementi che suggeriscono, anzi, sottolineano quanto il Giudice stia al suo tribunale come un mattatore stia al palcoscenico) e i primi piani avvolti in una forte saturazione cromatica delle conversazioni private.

E se a volte sorge plausibilmente il sospetto che il film si faccia scudo della propria indeterminatezza per permettersi il lusso di girare un po’ a vuoto (come nelle consultazioni della giuria, tirate a tratti gratuitamente per le lunghe), tutto trova la sua giustificazione e il suo punto di forza nel burbero, signorile e tenero saggio di bravura del suo primattore, che si riconferma – casomai ce ne fosse ancora il bisogno – come una delle più versatili e sottostimate della cinematografia europea.

Voto 7

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