10 Cloverfield Lane

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Per descrivere le iniziative della Bad Robot Productions e del loro gran mogol J.J. Abrams sarebbe opportuno parlare, più che di arte, di imprenditoria: ora con risultati interessanti e innovativi come il dittico di Star Trek, ora deludenti e derivativi come il “nuovo” capitolo di Star Wars, ma perlopiù irrilevanti (i sequel di Mission: Impossible) o spentisi in un fuoco di paglia (il bluff di Cloverfield, l’inesorabile decadenza della serie Lost), i progetti patrocinati dal cineasta newyorkese sono sempre partiti da una massiccia campagna di promozione, di strategia pubblicitaria, di oculata diffusione mediatica capace di andare oltre il prodotto stesso, generando quell’aura di magia, quel senso di attesa e quella incontenibile curiosità che l’autore di Super 8 ha voluto romanticamente riassumere nell’immagine di un’impenetrabile “scatola dei misteri”.



Dopo anni di dubbi, è bastata l’esperienza demoralizzante de Il risveglio della Forza, cinica, studiata riedizione della pellicola capostipite, più simile all’esito di una ricerca di marketing che a un’opera filmica vera e propria, per svelare l’impianto affabulatorio dietro l’incanto, per confermare il sospetto che, al di là della metafora, tutto si traduca in un’elaborata, spudorata vendita di fumo e per scoprire che, tristemente, lo scrigno di Abrams sia stato in realtà privo di contenuto sin dall’inizio.

È il cinema all’epoca del click-baiting, una catena produttiva autoreferenziale a ciclo continuo fondata sul franchise, sullo spin-off, sul reboot e sul resto di quella terminologia che, ridotta all’essenziale, significa innanzitutto lo sfruttamento biecamente commerciale di un’intuizione calcificatasi nella cultura di massa, una macchina dei sogni convertita in un registratore di cassa.

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10 Cloverfield Lane è probabilmente l’esempio più sfacciato di questa tendenza, la proverbiale montagna (di hype) che partorisce un topolino (di film), un pedissequo b-movie a budget ristretto trasformato a costo zero, allacciando legami pretestuosi al monster movie che inaugurò la marcia trionfale della Bad Robot, in un fenomeno da botteghino dai piedi di argilla. Sotto la patina cool e i nomi di grido arruolati ora dal web (il film-maker Dan Trachtenberg, promosso alla regia in virtù del suo visualizzatissimo cortometraggio Portal: No Escape), ora dalle nuove leve della cinematografia statunitense (il trentenne Damien Chazelle, chiamato, subito prima del successo di Whiplash, a ritemprare e a ricalibrare uno script inizialmente scevro di qualsivoglia richiamo al Cloverfield originale), si nasconde nulla di più di un formulaico, canonico thriller da camera paragonabile a un qualsiasi episodio de Ai confini della realtà allungato a dismisura, strutturalmente ripetitivo e meccanico, elementare nelle dinamiche fra i personaggi e prevedibile nella distribuzione dei colpi di scena e dei ribaltamenti della situazione.

Se il fulcro delle vicende è principalmente il gioco del gatto col topo che si instaura fra una ragazza incidentata (Mary Elizabeth Winstead) e il suo enigmatico soccorritore (John Goodman) all’interno di un rifugio anti-atomico al riparo da un’indefinita apocalisse in corso, lo studio psicologico dei due protagonisti è lasciato alla convenzione più vieta (lei giovane donna in cerca di emancipazione, lui instabile padre padrone con più di un segreto), l’atmosfera claustrofobica non si fa mai davvero opprimente e tangibilmente malsana ma si limita, fra vecchi 45 giri, giochi da tavolo e commedie di John Hughes, all’accessorio ammiccamento pop in stile Fallout – niente a che vedere, per dire, con l’ambiente spoglio e autenticamente inquietante di un illustre progenitore come Fase IV: distruzione Terra. Manca inoltre la coesione di una tensione costruita e incrementata a livello costante, sostituita da improvvidi cambi di tono e da una più rozza suspense a singhiozzo basata su estemporanee rivelazioni e sulla versatilità di un interprete come Goodman (finalmente, dopo tanto tempo, attore di primo piano), credibile nel rendere il bipolarismo e l’ambiguità di un antagonista sospeso in una caratterizzazione ora da pericoloso aguzzino, ora da scrupoloso custode.

Si tratta dell’unico valore aggiunto di un’operazione carente tanto sul piano del divertimento, cui non giovano di certo la scelta di affidare il ruolo dell’eroina a una neo-scream queen anodina e monocorde come la Winstead e uno sviluppo troppo concentrato sull’effetto per preoccuparsi di colmare i momenti di vuoto, quanto su quello concettuale, che invalida ogni possibile riflessione sulla paranoia e sul condizionamento con uno scioglimento finale giustapposto, disonesto e contraddittorio degno del peggior Shyamalan, una gratuita manipolazione delle aspettative del pubblico che comunque non può che dirsi scontata, vista la decisione – suicida, in termini di sorpresa – di identificare il tutto come filiazione di Cloverfield sin dal titolo.

È l’ultima beffa di un cinema malizioso e inconsistente più vicino alle tattiche di impronta televisiva, come suggeriscono i vari punti rimasti irrisolti e come suggella l’immancabile cliffhanger, che spalanca l’ipotesi – a seconda, naturalmente, dell’incasso – dell’avvio di una saga: preso per quello che è e considerato indipendentemente dai retroscena, dalle allusioni, dalle featurette e dalle trovatine virali che l’hanno soffocantemente preceduto, 10 Cloverfield Lane è né più, né meno di un dozzinale, impersonale film di genere come ne esistono a centinaia, con l’aggravante di un apparato creativo di pura routine che testimonia la malafede di molto intrattenimento cinematografico contemporaneo mainstream, una volta appannaggio di artigiani e di avventurieri come Dante e Carpenter, e oggi, più che della scoperta di idee, vittima dell’ossessione di trovare nuove tecniche per piazzarle sul mercato.

Voto 4.5

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