Cent’anni di Comencini

Di Andrea Bosco
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Fra le personalità più generose e discrete della stagione aurea della nostra commedia, vogliamo ricordare Luigi Comencini oggi come l’autore maggiormente capace di contaminare l’urgenza del vero del Neorealismo con l’espressione più genuina del nazionalpopolare e del folklore. Il testimone più attendibile di quella lenta transizione che ha accompagnato l’Italia dalle macerie del Dopoguerra alle contraddizioni del Boom, sempre con un occhio di riguardo alla coscienza e all’esigenza del pubblico, adottando ora la forma del cinema per ragazzi (l’esordio Probito rubare, vera e propria filiazione di Sciuscià), ora quella del melodramma (il notevole La tratta delle bianche, sorta di versione borgatara di Non si uccidono così anche i cavalli?), ora il linguaggio gentile della bucolica (il clamoroso successo di Pane, amore e fantasia), ora quello crudele e impietoso dell’apologo (l’apocalisse collettiva de L’ingorgo, a metà fra l’episodismo ruspante di Casotto e l’incombente funerale de La terrazza), tanto a suo agio con gli archetipi del racconto fantastico (lo sceneggiato televisivo Le avventure di Pinocchio, il miglior adattamento in assoluto del romanzo di Collodi) quanto con quelli del genere puro (l’avventura picaresca del sottovalutato A cavallo della tigre e il giallo di Senza sapere niente di lei).

In occasione del centenario della nascita, ripercorriamo tre tappe indispensabili della carriera del cineasta di Salò.



 

IL CAPOLAVORO – Tutti a casa (1960)

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Nel pieno del miracolo economico, Comencini volge lo sguardo al momento di massima confusione del nostro Novecento e, coniugando il contesto della tragedia storica con i codici della commedia popolare, racconta con piglio rocambolesco la nascita della consapevolezza della nostra identità nazionale, in procinto di affrancarsi dal Ventennio per affrontare il trauma dell’Armistizio e il salto nel vuoto della Resistenza, riassumendo nel sottotenente Innocenzi di Alberto Sordi, homo italicus per eccellenza, i vizi e le virtù, il coraggio e la codardia, la determinazione e l’irresolutezza, l’altruismo e l’opportunismo di un Paese costretto a confrontarsi con le proprie responsabilità e a operare – come esemplifica la sequenza del ricongiungimento col padre fedele al regime, un indimenticabile Eduardo de Filippo – la scelta definitiva. Il risultato è un affresco monumentale, irripetibile e partecipato che, anche grazie al fondamentale contributo di Age e Scarpelli, si colloca fra le vette inarrivabili del nostro cinema.

IL CULT – Lo scopone scientifico (1972)

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Il clima di tensione e di instabilità degli anni Settanta conferisce alla produzione comica tricolore del periodo, prima che le si venga fatto raggiungere l’irrecuperabile punto di non ritorno da La terrazza di Scola e, nel caso di Comencini, dall’incubo catastrofico de L’ingorgo (l’ultimo, ancorché imperfetto, suo film di rilievo), un’aura di cattiveria e di ferocia che ribalta l’ottica del genere e coinvolge tutti, miliardari e straccioni, colpevoli e innocenti, deboli e potenti, nella stessa spirale di disperazione e di egoismo. Lo scopone scientifico inaugura questa nuova fase con un irresistibile gioco al massacro che attinge tanto dalla fiaba nera, quanto dalla commedia di carattere, una lotta di classe condotta alla cieca da un sottoproletariato inetto (Sordi, ancora una volta, e un’insolita Silvana Mangano) contro un padronato moribondo ma invincibile (le maschere sfatte e grinzose di Bette Davis e Joseph Cotten): una divertentissima, folle carneficina sociale da cui non si salva davvero nessuno.

LA RISCOPERTA – Persiane chiuse (1950)

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Prima dell’exploit di Pane, amore e fantasia, Comencini aggiusta la propria visione “dal basso” all’immaginario – alla pari del successivo La tratta delle bianche – del noir, fra giri di prostituzione, locali notturni, delinquenti vari e degrado. Persiane chiuse è uno delle sue opere formalmente più interessanti, una discesa negli inferi urbani à la Fritz Lang illustrata con la deformazione espressionista di Pabst – merito soprattutto della fotografia, degna del muto, di Arturo Gallea –, ma anche un’analisi complessa e stratificata delle diverse sfumature della “condizione di vittima” della donna, fra meretricio (la Pippo di una memorabile Giulietta Masina) e succubanza (la Lucia di Liliana Gerace), che si scontra, come la protagonista interpretata da Eleonora Rossi Drago, contro il soffocante – e, nel migliore dei casi – commiserante maschilismo della società circostante e contro i ruoli (di figlia devota, di moglie disciplinata e di impiegata compiacente) che essa le impone.

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