La La Land

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Dopo il notevole Whiplash, per il suo terzo lungometraggio il giovane Damien Chazelle, classe 1985, ha alzato ancora di più il tiro realizzando un’opera che mescola perfettamente l’elemento nostalgico con la sperimentazione. Musical che strizza l’occhio tanto alla Golden Age hollywoodiana dei film con Fred Astaire e Ginger Rogers quanto a opere più recenti come Grease, La La Land è l’anello mancante che lega uno dei generi naïf per eccellenza al cinema di oggi, con le sue concretezze e i suoi pragmatismi.
Siamo a Los Angeles. Mia (Emma Stone) lavora nel bar degli studi della Warner Bros. e serve cappuccini alle star, coltivando il sogno di diventare, un giorno, un’attrice. Sebastian (Ryan Gosling), pianista jazz perennemente in bolletta, suona nei locali in attesa di aprire un suo jazz club. Il destino li fa incontrare, rincorrere, amare.



Fresco di sette Golden Globe vinti a fronte di altrettante nomination e candidato agli Oscar in 14 categorie (colpaccio riuscito in passato solo all’Eva contro Eva di Mankiewicz e al Titanic di Cameron), La La Land arriva nelle sale che è già un cult. Perché, pur nella sua estrema semplicità (la linea narrativa principale, a raccontarla, ha ben poco di originale), Chazelle riesce a far leva su un romanticismo non stucchevole né tantomeno scontato per parlare di quello che più ama: il jazz, le storie di rivalsa e la possibilità di esprimersi in totale libertà con la macchina da presa. Veniamo rapiti sin dal primo, spettacolare e complesso piano sequenza iniziale con una colorata esibizione su una delle freeway losangeline, perfetta anticamera di quello che vedremo di lì a poco. Poi arrivano loro, Mia e Sebastian. Lei, luminosa, con i suoi abitini svasati e a tinte piene che ricordano quelli indossati da Catherine Deneuve e Françoise Dorléac ne Les Demoiselles de Rochefort di Demy e gli occhioni spalancati su quella magnifica illusione che è Hollywood. E lui, musicista vecchio stampo in cerca del suo posto nella spietata città degli angeli «che venera ogni cosa e non dà valore a nulla», costretto a cedere alle lusinghe di una band R&B pur di realizzare il sogno di una vita.

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La La Land, esattamente come Whiplash, è un’opera trascinante e viscerale, più impalpabile e trasognata nella prima parte e decisamente più crudele e spietata nella seconda. Il solo fatto di costringere Mia e Sebastian a fare i conti con la realtà, con la vita e con le proprie ambizioni e frustrazioni, è già un forte elemento di novità in un musical. I personaggi, nonostante si esibiscano in leggiadri numeri di tip-tap al tramonto, sono costretti a tenere i piedi ben incollati a terra, non possono permettersi il lusso che si concedevano Woody Allen e Goldie Hawn nel ballo finale di Tutti dicono I love you, con Notre Dame sullo sfondo, che a sua volta richiamava quello sotto il ponte della Senna di Gene Kelly e Leslie Caron in Un americano a Parigi. Mia e Sebastian hanno un sogno da realizzare e nessuno più di Chazelle sa quanto quella strada possa essere dura e impervia. Per questo La La Land, a una lettura più attenta, rappresenta anche una perfetta storia di due solitudini che si sostengono in un rapporto che trova la sua forza più grande nella comune volontà di perseguire un obiettivo da raggiungere, che si rivelerà essere, alla fine, anche la sua più grande debolezza.

Qui il sudore e il sangue che connotavano Whiplash non si vedono, eppure ci sono. Ferimenti dell’anima, malinconie, scelte da compiere, progetti accantonati e ambizioni da mandare avanti a caro prezzo. Un mondo tangibile eppure sospeso a venti centimetri da terra, che non esisterebbe senza i virtuosismi registici di Chazelle (sono molte le scene in cui dà prova di un talento straordinario) e senza la colonna sonora di Justin Hurwitz, compagno del regista ad Harvard e già autore delle musiche di Guy and Madeline on a Park Bench e di Whiplash. Con brani che rispecchiano perfettamente le situazioni vissute dai protagonisti, Hurwitz farcisce la sua musica delle speranze e delle tribolazioni che appartengono a ogni storia d’amore che si rispetti. La sue note veicolano sogni, sentimenti universali in cui ciascuno di noi può riconoscersi. Rispolverando sonorità che a Hollywood non si sentivano ormai da un pezzo (fatta eccezione per il sopracitato Allen), Hurwitz gioca con ritmi orecchiabili e che rimangono bene impressi nella memoria, ma non per questo cheap, con arrangiamenti che ne connotano l’identità, fino a coglierne il senso più autentico.

Una meraviglia di film: demodé, audace e insieme classico, leggero e profondo, che sembra voler essere solo un sentito omaggio al Musical, finendo invece per riscriverne i tratti distintivi, trascendendo il genere stesso a cui appartiene.

Voto 9

 

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Carolina Tocci

Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.

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