Un re allo sbando

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Quello di Peter BrosensJessica Woodworth si è imposto sin dalle origini come uno sguardo filmico calato in una realtà antropologicamente “altra” a metà fra l’enigma e l’indagine, la suggestione simbolica e lo studio etnografico, il retaggio ancestrale e l’occhio sul contemporaneo: dalle steppe della Mongolia, sfondo di una trilogia non-fiction realizzata nella seconda metà degli anni ’90 e dell’esordio nella fiction di Khadak – che rivelò la coppia e conquistò un meritato Leone del Futuro a Venezia63 -, alle asperità andine di Altiplano, fino al repentino  rimpatrio, nel brullo paesaggio di un villaggio fiammingo trasfigurato e reso irriconoscibile da un inverno infinito, del memorabile La quinta stagione, non c’è un episodio nella produzione dei coniugi belgi (di nascita lui, d’adozione lei) in cui il luogo e lo spazio, intesi come scenario assurdo e irrazionale di un tempo immobile e ripiegato su stesso, non costituiscano il fulcro della loro poetica.



Era solo questione di tempo, dunque, prima che le loro storie intrise di eccentricità e di esotismo assumessero anche il carattere itinerante e le ambizioni interculturali tipici del road-movie, aderendo a una formula più collaudata e convenzionale in confronto all’astrattismo anti-narrativo delle opere precedenti; decisamente inatteso, al contrario, l’altro slittamento stilistico con cui il duo sceglie oggi di aggiornare il proprio bagaglio espressivo, ossia il ricorso alla sintassi del finto documentario, con una mobilissima macchina a mano a simulare la proverbiale trascuratezza del found footage, dialoghi semi-improvvisati in contrasto con l’incessante, prosaica voce fuoricampo e un uso strategico, a fini prettamente comici, dello smash cut e delle ellissi di montaggio.

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È quindi una decisa giravolta autoriale, quella dello scanzonato excursus di Un re allo sbando, una netta inversione di rotta per chi negli anni si era fatto artefice, a costo di abbracciare il formalismo, di un cinema di indefessa – e talvolta anche respingente – ricerca, forse addirittura un atto di autocritica volto a liberare il proprio linguaggio dall’artificio per andare direttamente al nocciolo della questione.

Raccontando le peripezie dell’ultimo (fittizio) erede di casa Sassonia-Coburgo-Gotha in visita a Istanbul e costretto dall’annuncio improvviso dell’indipendenza della Vallonia a uno spericolato itinerario di ritorno per via balcanica insieme al suo staff, Brosens e Woodworth vorrebbero dimostrare in maniera ancor più esplicita la loro indubbia capacità di cogliere il momento geopolitico che li circonda, applicandola per la prima volta nella loro carriera a un chiaro registro umoristico. Dopo l’industrializzazione coatta di Khadak, lo sfruttamento terzomondista di Altiplano e l’insorgere dei neopopulismi de La quinta stagioneUn re allo sbando si propone, a ridosso dell’irredentismo catalano, della crisi ucraina e della Brexit, come la puntuale radiografia di un Vecchio Continente fragile, debilitato dalle tendenze isolazioniste e tarato da un spirito identitario contraddittorio e irrisolvibile, ma il risultato, nonostante le premesse, è un’operazione molto meno a fuoco rispetto al passato.

Palesemente poco avvezzi al meccanismo della commedia, i due registi procedono per accumulo di siparietti scollati e ripetitivi basati su tòpoi farseschi antidiluviani (l’inseguimento, il travestimento, l’equivoco, il ribaltamento di ruolo, e via discorrendo), su stereotipi provinciali pericolosamente affini al repertorio buffonesco di un Dany Boon qualsiasi, dall’ovvia rivalità fra settentrionali e meridionali al ritratto macchiettistico (se non, a tratti, vagamente razzista) del campionario umano e sociale est-europeo, tra funzionari ultracorrotti, scalmanati signori della guerra e l’immancabile coro folkloristico bulgaro, e su caratterizzazioni grossolane, prive di un’evoluzione drammaturgica minimamente credibile – a cominciare dalla giovane addetta stampa Louise (Lucie Debay), tutta tempra e protocollo – e talmente  monodimensionali da rasentare il cartoonesco.

Come se non bastasse il filo di supponenza generale, il tono satirico d’insieme si mantiene sempre a debita distanza dal suo apparente bersaglio – l’inettitudine della monarchia e delle istituzioni che la attorniano – col risultato di stemperare il tutto con eccessiva bonarietà, quando non con condiscendenza, finendo per perdere di vista ogni proposito critico e concentrandosi piuttosto su una banale e rassicurante impostazione da racconto di formazione, con il sovrano del titolo, perfettamente rappresentato dalla figura goffa e allampanata del divo televisivo Peter van den Begin, a evolvere da maldestro e impacciato fantoccio del potere a individuo consapevole e conciliato con le proprie responsabilità, come se al termine di una lunga serie di barzellette moderatamente spassose si sentisse la necessità di appiccicare in coda una facile, costruttiva morale.

E se non si può fare a meno di divertirsi, seppur in misura contenuta e tutt’altro che entusiasmante – come invece la generosa accoglienza standard riservata alle pellicole brillanti di passaggio ai festival farebbe pensare -, si ha costantemente quell’impressione di già visto e di rimasticato, dall’impassibile aplomb à la Roy Andersson alla sgangheratezza di Emir Kusturica, da cui manca non solo la freschezza dei prototipi ma anche, soprattutto per colpa di quell’appiattente modello mockumentary così estraneo ai rodati stilemi dei due cineasti, totalmente a corto di quelle idee di regia che impreziosivano il resto della filmografia e di cui, verrebbe da pensare col senno di poi, nascondevano le carenze strutturali, che in Un re allo sbando si mostrano invece in tutta la loro evidenza, in particolare sul piano della scrittura.

Un esperimento sostanzialmente fallito, insomma, con cui Brosens e Woodworth portano involontariamente allo scoperto il lato più debole e discutibile del loro discorso, rendendolo sì maggiormente accessibile e intelligibile, ma pure svuotato di tutto il suo mistero e di tutta la sua fascinazione.

Voto 5

 

 

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