Resident Evil: The Final Chapter

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Iniziamo col fare due conti.
Resident Evil: The Final Chapter è il sesto e – se il titolo dice il vero – ultimo capitolo della saga iniziata nel 2002 e ispirata al famoso videogioco della Capcom.
E, nonostante in 15 anni ne siano successe di cose, sia sul versante più distopico del genere sci-fi che in campo videoludico, il franchise è andato avanti, scollandosi progressivamente dalla sua matrice originaria per andare a costruire un corpus filmico sempre più a uso e consumo di una nicchia di amanti di un universo semantico che, nel frattempo, è diventato quasi vintage. Di fronte a un arco temporale e narrativo così ampio, chiudere la storia rappresentava un compito tutt’altro che facile, ma Paul W.S. Anderson, sceneggiatore e regista di quattro dei film che compongono la serie, riesce in qualche modo a riprendere le fila del discorso e dargli un epilogo che, sebbene tirato un po’ per i capelli, un senso (e un minimo di coerenza interna) ce l’ha.



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Dopo un (neanche tanto) breve recap dei primi cinque capitoli, la pellicola ha inizio con Alice (Milla Jovovich) che, tradita da quelli che riteneva essere suoi alleati, combatte ormai da sola contro interi eserciti di non morti. Fino a quando non viene a sapere dell’esistenza di un antidoto al virus propagato anni prima dalla Umbrella Corporation suscettibile di salvare gli ultimi avamposti di umani sparpagliati sul pianeta dalla definitiva e prossima estinzione. Ma per portare a termine questa missione quasi impossibile Alice dovrà tornare proprio lì dove tutto è cominciato, a Racoon City.
Resident Evil: The Final Chapter inizia dunque come un western post-apocalittico, una sorta di Mad Max in cui l’eroina combatte quasi più per una forma di riflesso incondizionato che non per perseguire uno scopo. Poi, tra vari déjà vu e colpi di scena, tutti caratterizzati dal loro essere ampiamente telefonati, il film si perde in una ridda di spiegoni e fughe a rotta di collo. Ed è curioso come quello di Anderson nei confronti di Resident Evil rappresenti una sorta di percorso circolare che lo ha portato a prendere un videogame di enorme successo e trasferirlo sul grande schermo per poi, alla fine, traghettarlo di nuovo verso la console.

La sensazione che si ha durante la visione è infatti quella dell’ultimo livello di un videogioco ripreso in mano dopo molti anni dall’ultima volta.
Uno di quelli con cui si era giocato fino allo sfinimento e si era messo da parte ripromettendosi, prima o poi, di portare a termine.
Il percorso narrativo appare quindi segnato da un forte senso di predeterminazione mista a urgenza che, fin da subito, assume i connotati di una sfrenata corsa attraverso ambienti successivi – la velocità del montaggio a tratti si fa quasi insostenibile – fino a una scena finale che, seppur foriera di uno switch significativo, arriva quasi fuori tempo massimo.
Ma il problema principale, quello che spinge a guardare l’orologio quando la storia è ancora ben lungi dall’avviarsi verso la fine, sono alcuni tra i peggiori dialoghi mai ascoltati al cinema. Scambi di battute che vorrebbero essere ironiche ma il più delle volte si perdono nell’oceano del ridicolo involontario. Sia ben inteso,  nessuno si aspetta da un’opera come Resident Evil: The Final Chapter chissà quali forme di profondità o di introspezione (i personaggi sono giustamente tagliati con l’accetta) ma, anche adottando un parametro di valutazione settato sul cinema d’intrattenimento di grana più grossa, il film di Anderson risulta oltremodo pigro nel suo ipotizzare che certo pubblico possa accontentarsi proprio del minimo sindacale.
Un lussuoso giocattolo quindi, utile solo come quadratura di un cerchio già di suo non perfettamente tondo.

Voto 4

 

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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