Barriere

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C’è tutta una parte di America, degli Stati Uniti, che non si è mai riconosciuta nel tanto cinema mainstream che il Paese confeziona ed esporta. No, c’è un’America che ha bisogno di ritrovarsi nelle trasposizione delle piéce teatrali dalla forte potenza drammaturgica, storie che spesso raccontano i disagi del Paese attraverso vicende di persone qualunque che rappresentano i grandi archetipi dell’umanità e che esistono intensamente. In una parola, Tennessee Williams: tra antieroi vittime di incomprensioni e soprusi e individui emarginati alla cui coscienza viene data, finalmente, voce.
Per il suo terzo film da regista (dopo Antwone Fisher e The Great Debaters – Il potere della parola) Denzel Washington sceglie di cavalcare quest’onda, portando al cinema l’opera teatrale di August Wilson vincitrice del Pulitzer per la drammaturgia, che aveva già interpretato sul palco di Broadway nel 2010 accanto a una straordinaria Viola Davis e che valse a entrambi il Tony Award.



La storia di Barriere ruota attorno a Troy Maxon (Washington), ex giocatore di baseball della Negro League che negli anni Cinquanta cerca di sbarcare il lunario e mantenere la propria famiglia lavorando come netturbino nei quartieri bianchi, tormentato dalla delusione per non essere mai diventato un campione. Convinto che sia primo dovere di un uomo mantenere se stesso e i propri cari, Troy non riesce purtroppo a esternare l’affetto che dovrebbe nei confronti di sua moglie Rose (Davis) e dei figli, che cresce rigidamente a suon di lezioni su doveri e responsabilità.

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Ma il cinema non è il teatro, come recentemente ci ha ricordato un’altra pellicola che nel passaggio di medium ha perso energia e intensità, I segreti di Osage County. Anche in quel caso, sovrarecitazione e mancanza della chiave giusta (quella cinematografica, appunto) che sapesse rendere indimenticabile anche in sala quello che aveva letteralmente annientato i tantissimi spettatori che avevano assistito alla piéce dalla platea teatrale. In Barriere accade più o meno lo stesso: uno spazio scenico ristrettissimo, praticamente avviene tutto tra il cortile e il salotto-cucina di casa Maxon, con il passato della famiglia raccontato dai suoi membri attraverso eccessi di verbosità a tratti stancanti. Non bastano la bravura del Washington attore (davvero straordinaria la sua parlata che adotta lo slang di Pittsburgh anche se un po’ troppo over acting) e della Davis, a salvare Barriere dal finire …Perché quella scrittura che a teatro non sembra risentire di eccessi o ridondanze, ecco che al cinema trova proprio qui i suoi principali difetti. Sarà che anche la regia, piatta ed elementare, di Washington non fa nulla per conferire un po’ di brio a quei pochi passaggi di tempo e luogo che fanno da raccordo alla storia.

Voto 5

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Carolina Tocci

Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.

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