Kong: Skull Island

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Indipendentemente da come siano andate davvero le cose, a noi la genesi di Kong: Skull Island piace immaginarla così: con Jordan Vogt-Roberts che irrompe ai piani alti degli Studios, forte di un solo film all’attivo, un coefficiente di nerditudo tendente a infinito e con la sua folle idea di ibridare war movie e mostri. Anzi, nemmeno un war movie qualsiasi, ma proprio uno dei capolavori indiscussi del genere, Apocalypse Now!
La pellicola delegata a fare da viatico all’incontro/scontro prossimo venturo tra King Kong e Godzilla (preconizzato nell’ormai quasi immancabile scena post titoli di coda) è dunque un’opera assai meno ecumenica rispetto a quella dedicata due anni fa a quest’ultimo da Gareth Edwards.
Meno autoriale in senso stretto e più votato al puro divertimento, Kong: Skull Island appare come un lussuosissimo giocattolo per lo più privo di doppie letture di sorta, lontano anni luce dall’afflato filologico con cui, poco più di dieci anni fa, Peter Jackson approcciò il capolavoro del ’33 di Cooper e Schoedsack.
Seppur così diverso, il King Kong del 2005 finisce però con l’essere la pietra angolare più utile per decriptare il lavoro del giovane Vogt-Roberts. Perché il remake-monstre di Jackson è tecnicamente invecchiato benissimo e talmente impresso in un immaginario collettivo per cui le meraviglie della CGI non rappresentano più una novità già da tempo da non giustificare neanche grandi attese da parte del pubblico.



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Motivo per cui l’autore decide di mostrarci Kong quasi subito, mentre, nel mezzo della più classica delle scene di elicotteri militari che si stagliano contro un cielo rosso di cui Vittorio Storaro andrebbe particolarmente fiero, semina il panico tra i partecipanti a una misteriosa spedizione su un’isoletta sperduta nel sud del Pacifico.
Da lì in poi sono due ore scarse (benedetta sia l’idea che un blockbuster possa anche non durare un’eternità) di goduria cinefila che, memore di George Miller e del fenomenale Mad Max: Fury Road, non si cura troppo di costruire uno script che eviti i principali stereotipi del genere ma, anzi, quegli stessi stereotipi decide di cavalcarli fino a renderli il punto nodale della visione.
Ecco quindi che abbiamo uno dei marine più invasati e fascistoidi visti al cinema dai tempi del Sergente Maggiore Hartman di kubrickiana memoria (Samuel L. Jackson), un lupo solitario bello e tenebroso (Tom Hiddleston) che, in un doppio salto carpiato di citazionismo che porta dritto a Cuore di tenebra, di cognome fa Conrad e un outsider (John C. Reilly) che vive sull’isola da trent’anni (il film si svolge nel 1973, alla fine della Guerra del Vietnam, come suggerito dalla notevole colonna sonora tutta Stooges e Creedence Clearwater Revival) e tanto ricorda lo sbiellato fotoreporter interpretato da Dennis Hopper in Apocalypse Now.
Ovviamente c’è anche una donna, a portare avanti una tradizione di bionde ghermite da enormi mani pelose che da Fay Wray porta fino a Naomi Watts via Jessica Lange e ha gli occhi dolci e gli abiti succinti di Brie Larson, che qui però smette di essere la miccia degli istinti più umani del gigantesco primate protagonista per diventare invece elemento più periferico.

Ma, come dicevamo poc’anzi, il solo King Kong nel 2017 non basta a riempire lo schermo di stupore, o almeno non più. Per cui, se proprio si deve giocare con la serie B giapponese, allora è meglio sporcarcisi le mani per bene, introducendo anche altri e più spaventosi mostri che allontanino il film dalla sua originale morale antropologica che vedeva nello scimmione il simulacro di una natura violenta e ancestrale contro una modernità disposta a tutto pur di sfruttarla a fini di lucro, per avvicinarlo di più agli anni 80 – Predator è un altro riferimento imprescindibile di Jordan Vogt-Roberts – e a una più pura e semplice lotta per la sopravvivenza.
Una lotta che non coinvolge però solo gli umani, perdenti in partenza contro specie diverse di mostri, ma anche due idee antitetiche di cinema.
A una celebrazione del mito di stampo più classico – a cui, paradossalmente, un autore ossessionato dagli effetti speciali come Peter Jackson finisce con l’appartenere – si contrappone infatti la più moderna delle derive estetiche (ed estetizzanti) di area mainstream.
Vogt-Roberts è indiscutibilmente figlio di una cultura pop che non è più quella tarantiniana nata dalla semplice convergenza di autorialità e artigianato, bensì articolata su una serie di suggestioni di cui il cinema stricto sensu rappresenta solo la punta di un iceberg fatto anche e soprattutto di videogames, manga e – per ammissione dell’autore stesso –  di Pokémon.
E nel suo rifuggire la profondità, proprio mentre tutta l’industria dell’intrattenimento sembra andare in direzione opposta (vedi anche il recente Logan), Kong: Skull Island è un’opera ben lungi dall’essere vacua, ma che anzi riflette e rielabora in maniera radicale immaginari già noti.
Che è un po’ come prendere Kurtz, metterlo di fronte a uno scimmione alto quanto un grattacielo e vedere come cambia di senso il suo “l’orrore…l’orrore“.

Voto 7

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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