Elle

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Primo piano di un gatto (nero) che fissa il punto da cui sentiamo arrivare alcuni gemiti di piacere violento per nulla fraintendibili.
Poi il rumore di oggetti che cadono infrangendosi a terra e, a seguire, quello di due schiaffi, forti, a suggerire allo spettatore il sospetto che, quanto si sta consumando fuori campo, non sia l’amplesso tra due amanti particolarmente focosi, bensì un stupro. Poi la macchina da presa si sposta sul corpo di una donna stesa per terra. Malgrado sia evidentemente provata e dolorante, questa si ricompone e, quasi senza battere ciglio, inizia a rimettere tutto in ordine.
Comincia così Elle, inaspettato capolavoro di un redivivo Paul Verhoeven e summa teorica ed estetica di tutto il suo cinema.
Da Il quarto uomo fino a Black Book il regista olandese ha sempre scandagliato, adattandosi a finalità produttive e commerciali di volta in volta differenti, i vari punti in cui erotismo e violenza finiscono per incrociarsi.
La costante è il cinismo, qui ostentato da una Isabelle Huppert che definire meravigliosa è un’approssimazione per difetto.
L’attrice porta in dote al film un corpo in qualche modo già violato da anni di Haneke e Chabrol che, oltre ad essere un valore aggiunto inestimabile, è elemento imprescindibile per l’effetto, fortemente voluto dall’autore, di allontanare lo spettatore da qualsivoglia processo empatico.
La freddezza della protagonista – produttrice di videogame, ça va sans dire, proprio incentrati sulla violenza – è infatti la chiave principale per entrare in questo labirinto di erotismo disturbante.



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Un finto giallo in cui il whodunit si esaurisce più o meno a metà film e, una volta reso noto il colpevole, ciò che conta è solo questo splendido ritratto di donna e il suo complesso percorso circolare che, da un passato di indicibile violenza mai davvero metabolizzato del tutto, arriva al desiderio di altra violenza nel tentativo, per lo più sterile, di riuscire a esercitarvi una forma di controllo.
Chi, sulla scorta della location francese e di un utilizzo a tratti almodovariano dell’ironia finora sconosciuto a Verhoeven, fosse tentato di considerare Elle un corpo estraneo nella filmografia del regista, commetterebbe però un errore di valutazione.
L’opera idealmente più vicina a questa corrisponde infatti con il più famoso tra i suoi precedenti film, quel Basic Instinct che, proprio un quarto di secolo fa, dissimulava dietro allo scalpore veicolato ad arte per l’accavallamento di gambe più sexy della storia del cinema, uno dei più riusciti tentativo di rileggere il cinema di Hitchcock in un’ottica moderna.
Se la sola colonna sonora di Anne Dudley (Oscar nel 1998 per Full Monty) non fosse già abbastanza chiara nell’omaggiare il maestro della suspense, ci pensa lo stesso regista, quando indugia con la macchina da presa su innocui utensili domestici che, proprio come il rompighiaccio con cui Sharon Stone freddava le sue vittime, una volta inquadrati disvelano per forza di cose la loro natura di armi improprie, neanche fossimo in un remake de Il delitto perfetto.

Ma, potere delle citazioni a parte, ciò che più avvicina Elle a Basic Instinct è la sua rappresentazione del sesso, visto prima di tutto come qualcosa di potenzialmente pericoloso, così come l’attenzione al lato più voyeuristico dell’universo erotico, concetto sintetizzato nelle troppe porte finestre che delimitano la lussuosa abitazione della protagonista e ne amplificando la sensazione di profonda vulnerabilità annullando, di fatto, qualsiasi auspicabile delimitazione tra “dentro” e “fuori”.
Ma laddove, in passato, Verhoeven ha sposato il genere pur aggiornandone i canoni in chiave glamour, qui si spinge ben oltre, fino a trascenderne i confini. Così Elle non è il revenge movie che all’inizio potrebbe sembrare e non è neanche un thriller, almeno non in senso stretto.
Potremmo semmai definirlo un thriller dell’anima, se non fosse in qualche modo anche una commedia grottesca capace di strappare più di una risata durante scene che tutto suggeriscono tranne un’idea di leggerezza. Basti pensare al modo goffo che ha Isabelle Huppert/Michelle di confessare a parenti e amici del suo recente stupro o alla scena in cui, durante una cena, la donna racconta con estrema nonchalance, a un uomo con cui fino ad allora ha flirtato, di cosa voglia dire essere la figlia di un serial killer.
Faro indiscusso di tutta l’opera è in ogni caso la sua attrice protagonista, una Huppert non a caso candidata all’Oscar, perfetta nell’alternare autorità e acquiescenza in giuste dosi. Una lezione di puro erotismo la sua (a dispetto di un’età in cui spesso il cinema relega le donne a ruoli di contorno, in genere la mamma del protagonista) senza la quale il film non sarebbe lo stesso o, in ogni caso, non così bello.
E pensare che lo stesso Verhoeven ha ammesso di aver deciso di ambientare il film in Francia perché consapevole di come a Hollywood non glielo avrebbero mai lasciato fare.

Voto 8

 

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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