Amour

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E’ la fine degli anni ottanta.
Una famiglia austriaca piccolo-borghese conduce un’esistenza tradizionalmente scandita dalla routine e dalla inevitabile ripetizione delle semplici abitudini giornaliere. Passano dieci lunghissimi minuti, durante i quali, negataci categoricamente la possibilità di vedere in volto i personaggi, ad introdurci nella vicenda ci pensano i gesti, le cose, i feticci della vita domestica: la sveglia, le babbucce, l’accappatoio, gli spazzolini, l’acquario, la ventiquattr’ore, la macchina del caffé, una lauta colazione. Tutto è incontaminato, asettico. Sterile. Glaciale. Prodotti d’arredamento appena estrapolati da un catalogo. Le inquadrature sono fisse, fatte salve un paio di eccezioni. I gesti cominciano a ripetersi. Georges e Anne, i primi Georges e Anne dell’universo hanekeiano, sono inquadrati soprattutto per dettagli, raramente in volto.



Gli oggetti prendono spesso il sopravvento al centro dell’immagine. Dopo un paio di anni uguali a tutti gli altri, all’improvviso, l’annuncio. La partenza per il settimo continente. Veloce, incondizionata. Secondo il modello cartografico vigente in Europa, i continenti sono sei. Il settimo continente non esiste.

Michael Haneke ha 47 anni. Per quanto viennese per formazione ed educazione, è nato a Monaco di Baviera. Nell’ultimo terzo della sua vita si è occupato principalmente di regia televisiva. E’ laureato in filosofia. E’ un musicista e attore fallito. Der Siebente Kontinent è il suo esordio sul grande schermo.
E’ il 2011. La filmografia di Michael Haneke ha assunto i connotati di una severa, gelida e a tratti disturbante biopsia della società contemporanea, il suo stile si è mantenuto secco, preciso, esigente, la sua poetica ha indagato le manifestazioni della violenza fisica e psicologica nel quotidiano, il bisogno congenito di sopraffazione fra gli individui, l’orgasmo della morte altrui e, a volte, della propria.

I detrattori e le controversie non sono mancati. Non sono mancati nemmeno i riconoscimenti.
I ventidue anni netti che lo separano dal suo debutto cinematografico sono stati ricchi di eventi: a partire da Funny Games, tutti i suoi film – eccetto il remake americano di quest’ultimo – sono stati presentati al Festival di Cannes. Quattro sono stati premiati. Il più recente, Il nastro bianco, ha ottenuto la Palma d’Oro.

Nel frattempo, Georges e Anne, nelle loro successive incarnazioni, ne hanno passate di ogni tipo. Ne abbiamo visto la fine più volte, spesso nella completa indifferenza.
Michael Haneke sta per compiere 70 anni.
Georges e Anne, per la prima volta nella sua carriera, lo hanno superato in età, e non di poco. Hanno rispettivamente 80 e 84 anni.

Amour non offre false speranze e non si rifugia nella suspense per culminare catarticamente in quel fulmineo raptus di violenza tanto familiare ai conoscitori dell’opera di Michael Haneke, non sono previsti colpi di scena o atti inconsulti da sobbalzo sulla poltrona: prima della fine dei titoli di testa, quando il piano sequenza introduttivo, dopo aver vagato placidamente per la casa degli anziani coniugi Laurent, si posa e si blocca sul corpo inerte di Anne, lo sviluppo della vicenda non è più un mistero per nessuno. E non deve, non vuole esserlo.
Prima di finire su quel capezzale circondata da petali di fiori sparsi amorevolmente, Anne è stata un’insegnante di pianoforte, come suo marito Georges, e la vediamo per la prima volta, insieme a quest’ultimo, viva, mentre assiste all’esibizione di un suo ex allievo ora affermato concertista. Il brano è l’Impromptu in do minore di Franz Schubert, compositore prediletto di Anne.
E di Michael Haneke (La Pianista). A serata conclusa, la coppia torna a casa e scopre che la porta d’ingresso è stata forzata. Non è stato portato via nulla, forse i presunti ladri non hanno neanche varcato la soglia: ad aspettarli in salotto non ci sono Peter e Paul, i ghignanti carnefici di Funny Games, e nemmeno i fuggitivi disperati de Il Tempo dei Lupi.

La dichiarazione di intenti del primo quarto d’ora di Amour non potrebbe essere più chiara: quanto si è incontrato finora nell’ambiente hanekeiano, almeno per questa volta, è destinato a restare fuori dalla nostra visuale. Una volta chiusa quella porta, il mondo esterno e le sue regole saranno solo un ricordo, dato che per tutto il resto del film l’appartamento dei Laurent resterà l’unico teatro degli eventi. Rimarremo da soli, a osservare questa vivace, vispa coppia di ottantenni che, dopo un’intera vita trascorsa insieme, sa ancora comportarsi da adolescenti innamorati, sa accettare i limiti dell’età senza per questo adagiarsi nella senilità, sa non solo volersi bene ma anche desiderarsi con passione autentica e persino sensuale, anche se la cosa viene solo suggerita. L’Amore fra Georges e Anne è, insomma, totale.

Resterà tale anche quando lei, in seguito ad un intervento andato a male nonostante il basso margine di rischio, si immetterà in un lento, straziante e mortificante – è davvero il caso di dirlo – percorso di progressiva perdita di tutto ciò che è femminile, poi umano, poi fisico.
La fine, come si dice, è nota, e la consapevolezza di un declino incombente non lascia adito a molti dubbi sullo svolgimento del film.

Michael Haneke si è detto favorevolmente impressionato dallo stupore provato dal pubblico di fronte ad un oggetto così intelligibile, diretto, addirittura “semplice” rispetto al resto della sua produzione, e difficilmente si potrebbe pensare il contrario: Amour è soprattutto l’opera di un austero veterano cresciuto fra giochi al massacro e stoccate antiborghesi, fra sadismo e darwinismo, che solo con l’esperienza e con il passaggio degli anni si è reso conto che la morte non è più solo un espediente allegorico o un passaggio più o meno obbligato per i propri protagonisti. Amour è un memento mori che rifugge la didascalia e comincia a farsi concreto. E’ l’opera di un uomo di settant’anni che si è accorto di avere paura di morire.

La netta distanza fra il nuovo film di Michael Haneke e i suoi lavori precedenti – così come il rovesciamento speculare delle premesse di Der Siebente Kontinent – non invalida quanto espresso finora nella poetica dell’autore, non ne rappresenta un’abiura, ma un necessario, se non auspicabile completamento: le inquadrature spietatamente fisse e provocatoriamente dilatate della Trilogia della Glaciazione (valgano per tutti i tre minuti di ping pong in solitaria di 71 Frammenti di una Cronologia del Caso) si sono fatte mano a mano più accessibili e movimentate, le incolpevoli cavie dell’antropologo si sono evolute in personaggi reali con i quali solidarizzare non è più escluso, la dissertazione sociologica e l’analisi storica hanno lasciato il posto, secondo ammissione dello stesso Haneke, ad una prospettiva puramente intima e privata, quella, come già detto, di un uomo che avverte i propri timori atavici farsi gradualmente tangibili.

Soprattutto in virtù di questo, Amour non è quel “film sull’eutanasia” che buona parte della stampa ha descritto: non c’è niente di dolce, di buono, di “eu-” nel gesto di Georges, che è quindi solo necessario, naturale e profondamente sensato, la razionale conseguenza di un insensato, terribile e insostenibile processo di disumanizzazione che è la malattia di una persona cara costretta a sentire l’energia vitale che scivola via, a partire da quella piazza del letto matrimoniale posta più in basso per facilitare gli spostamenti e che in realtà è solo la prima tappa di una lunga serie di umiliazioni.
Come Georges, restiamo testimoni stravolti di quel terribile senso di vergogna che una donna fino a ieri perfettamente lucida, brillante e rigogliosa nella sua vitalità prova nel farsi imboccare, nel farsi cambiare il pannolino, nel pisciarsi addosso, nel farsi lavare sotto la doccia da una domestica con la stessa foga di una violenza sessuale.
Haneke ci mostra tutto questo senza sconti di sorta, e non per desiderio di accanimento o per voyeuristico compiacimento, ma per restituirci in tempo reale la sensazione di impotenza di un uomo che, con forza indicibile, cerca disperatamente di far trapelare l’amore di una vita intera in quelle semplicissime azioni di primaria assistenza.

Solo molto più tardi (troppo tardi, forse), dopo aver protetto la moglie dagli ospedali, dall’insorgere dei rimpianti, dall’incompetenza delle badanti, dall’egoismo della figlia (una misuratissima Isabelle Huppert) e anche, in parte, da se stesso, Georges arriverà ad una decisione che, in un qualsiasi altro film di Haneke, susciterebbe sgomento, se non addirittura sorpresa, e che qui, invece, è l’unica soluzione possibile ed auspicabile.

La morte, tuttavia, non è il fulcro assoluto della pellicola: non è casuale che, negli aneddoti di Georges raccontati proprio nei due momenti cardine di Amour, ad affacciarsi sia il dolcissimo piacere del ricordo come sorgente di preziosissimo conforto, certo, inevitabilmente traviata e rafforzata dalla nostalgia, come un vecchio album di fotografie – quello chiesto con tanta insistenza da Anne e lentamente sfogliato in cucina – da cui sono stati espunti i giorni più dolorosi e trascurabili.
La vita è una veloce sequenza di istantanee, suggerisce Georges in uno dei suoi racconti, e l’emozione, come per il film da lui visto in gioventù e progressivamente “cresciuto” a visione ultimata fino a suscitargli le lacrime negategli dentro la sala – come Amour stesso – si rivela più potente proprio nella reminiscenza.
E’ un messaggio di speranza che attenua il macrocosmo pessimista e inconsolabile di Michael Haneke, che, per una volta, sembra voler allentare il rigore del suo cinema: persino la violenza sull’animale, immagine ricorrente nei film precedenti (i pesci di Der Siebente Kontinent, il gallo di Niente da Nascondere, il cavallo de Il Tempo dei Lupi, e così via…), viene qui risolta in modo inedito e speculare rispetto al passato.

Non è dato sapere quale sia il futuro creativo dell’autore de Il Nastro Bianco, se Amour rappresenterà un definitivo punto di svolta o solo una temporanea anomalia: la sola certezza è che, aiutato da due protagonisti che il regista stesso – e imprescindibilmente, a posteriori, anche lo spettatore – ha faticato a immaginare diversa, tanto nella struggente immedesimazione di Jean-Louis Trintignant, quanto nella straordinaria eleganza di Emmanuelle Riva (agli antipodi dell’amour fou del suo esordio in Hiroshima Mon Amour), Michael Haneke firma l’ennesimo episodio irrinunciabile della sua carriera, un film d’amore nella sua forma più pura e disarmante, un’opera destinata, come i suoi Georges e Anne, a vivere indipendentemente da tutto, per sempre.

Voto 9

Recensione a cura di Andrea Bosco
(www.binarioloco.it)

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Carolina Tocci

Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.

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