Un fantastico viavai

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Credo che, in linea di massima, la recensione di un nuovo film di Leonardo Pieraccioni rappresenti un discreto banco di prova per chiunque si occupi, a vario titolo, di critica cinematografica. Perché si suppone che, in qualche modo, tu debba cercare di andare oltre i luoghi comuni e i facili cliché di chi, appena gira voce che sta per uscire un suo film, è subito pronto a dire che sarà la solita favoletta inconsistente, che i tempi de Il Ciclone sono belli che andati e che Francesco Nuti era tutta un’altra cosa.



Ora, a parte il fatto che paragonare Nuti a Pieraccioni è un po’ come accostare Troisi ad Alessandro Siani (oddio, c’è davvero chi lo ha fatto?), ma siamo proprio sicuri che Il Ciclone sia da considerarsi come lo zenith della creatività di Pieraccioni e che tutto ciò che è venuto dopo rappresenti una fase discendente del suo ciclo artistico?
Non erano forse in nuce, già in quello stesso Ciclone, tutti i segni distintivi di un modo di fare cinema – e soprattutto di pensare il cinema – che abbassava drasticamente l’asticella di qualsiasi velleità artistica ai minimi termini?
Lo schema “trentenne sfigato e fancazzista incontra modella sudamericana promessa in sposa a un altro e riesce a farla innamorare con la semplicità e la simpatia”, in fondo, nasce proprio in occasione di quel film e viene reiterato in maniera pedissequa per tutte le “opere” a seguire.

Ecco quindi che, ogni due anni, poco prima di Natale Pieraccioni campeggiava sulla locandina del suo nuovo film con la stessa identica espressione sul viso – un mix poco convinto di imbarazzo e cialtroneria – e, alle sue spalle, la modella sudamericana del film precedente veniva semplicemente rimpiazzata da un’altra. Se vogliamo essere buoni (che in fondo è Natale) e trovare, nell’intera filmografia di Pieraccioni, una flebile eccezione a questo schema, non possiamo fare altro che procedere a ritroso, ancora prima del Ciclone, e rivalutare il suo film d’esordio I Laureati.
Ecco, ne I Laureati c’era una freschezza, seppure declinata in una maniera un po’ facilona, che nessun altro film di Leonardo Pieraccioni ha mai più avuto.

Lui evidentemente questa cosa deve averla capita – ma sono più propenso a credere che gliela abbia suggerita Paolo Genovese, co-sceneggiatore chiamato qui a sostituire Giovanni Veronesi – e la via più semplice per recuperare un po’ di quella freschezza deve essergli sembrata quella di fare un reboot de I Laureati o comunque un film che parlasse di giovani un po’ in crisi.

Ma ormai Pieraccioni è sulla soglia dei cinquanta e come si fa? Semplice, si fa recitare a Pieraccioni il ruolo di un cinquantenne, stanco della routine matrimoniale e lavorativa, e lo si fa andare a vivere per pochi giorni in un appartamento di studenti fuorisede. Fin qui tutto ok. La paura che da un momento all’altro salti fuori una modella sudamericana c’è ancora, ma decidiamo di fidarci.

Poi succede che questi quattro studenti fuorisede siano uno più bello dell’altro, che l’appartamento in questione sembri prelevato di peso da una qualsiasi rivista di design e che – errore madornale – qualsiasi scontro generazionale tra Arnaldo Nardi (il cinquantenne in questione) e i ragazzi venga risolto nell’arco di un paio di battute. Se ci mettiamo pure che ognuno di questi ragazzi è afflitto da un problema piuttosto idealtipico (c’è la ragazza incinta ma i genitori non lo sanno, quella a cui piacciono i toyboy, il ragazzo di colore non accettato dal suocero e uno studente di medicina che non regge la vista del sangue) e che tutti e quattro questi problemi vengono risolti da Arnaldo nell’arco di una sola settimana il quadro è completo.

Non c’è nulla che assomigli alla vita in questo film e l’idea che Pieraccioni ha dei giovani è vicina in maniera preoccupante a quella di un qualsiasi Moccia. Non c’è cattiveria, neanche laddove poteva – e doveva – esserci. C’è da dire che non c’è neanche una modella sudamericana.
Ma il problema reale di questo film, al netto di una rappresentazione favolistica dell’Italia di oggi in cui un uomo può smettere di essere razzista dall’oggi al domani e non c’è un cenno che sia uno alla crisi del lavoro, è che non fa ridere.
Mai.
Nemmeno in quella corsa per non pagare al ristorante che cita in maniera manifesta quei Laureati di cui si parlava poc’anzi. E se un film di Pieraccioni non riesce a strappare neanche una risata in 95 minuti viene davvero da chiedersi quale possa essere la sua utilità.

Voto 3

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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