Gli imperdibili del 2013 secondo Andrea Bosco

Di Andrea Bosco
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La vita di Adèle di Abdellatif Kechiche
Un’opera totale che riconcilia la creazione filmica con l’autenticità dell’esistenza, un’esperienza talmente ravvicinata e intima da diventare multisensoriale: apoteosi del close-up, formidabile connubio di mastodontico e di microscopico, punto di non ritorno del linguaggio neo-neorealista di Abdellatif Kechiche, La vita di Adèle trabocca non solo di immagini e di suoni, ma anche di sapori, di profumi e soprattutto di contatti più veri del vero, nudo, assoluto ed emozionante come solo la vita di tutti i giorni può essere.

The Master di Paul Thomas Anderson
Superbo e magnetico saggio sulla dialettica servo-padrone, ritratto impietoso e disperato di una civiltà dicotomicamente divisa e ugualmente sperduta fra razionalità e istinto, leadership e sottomissione, mente e corpo: assistito da due interpreti maschili sovrumani e complementari, Anderson si affranca dai propri maestri e perviene alla piena maturazione della propria poetica: cinema concettuale, necessario e urgente come non mai.



The Grandmaster di Wong Kar-Wai
Una superlativa anti-epopea di destini disillusi, di ambizioni spezzate, di amori non corrisposti: C’era una volta ad Hong Kong, verrebbe da dire, di certo un affresco contemporaneamente grandioso ed antispettacolare, magniloquente eppure laconico, una straziante epica (volutamente?) fallita che si appropria dei canoni e dell’estetica gongfu per descrivere con infinita poesia un’umanità votata all’amarezza e al disincanto.

Qualcosa nell’aria di Olivier Assayas
Un mosaico generazionale di inusitata potenza che rappresenta forse il culmine dell’opera di Olivier Assayas: superato e moltiplicato esponenzialmente il precedente L’eau froide, questa straordinaria, variopinta galleria di utopie e delusioni si mantiene su un equilibrio perfetto di romanticismo e di analisi, di autobiografismo e di distacco per riassumere il post-sessantottismo in tutte le sue sfaccettature e contraddizioni.

La moglie del poliziotto di Philip Gröning
Magistrale esempio di cinema cubista e disorientante percorso a capitoli su modello del Rayuela cortazariano, il ritorno di Philip Gröning alla fiction è un intricato sistema di suggestioni, indizi, allusioni e frammenti che chiama in causa l’intelligenza e, soprattutto, la sensibilità dello spettatore: tre tesissime, densissime ore di insostenibile tensione da cui lasciarsi condurre, affascinare, ipnotizzare e scioccare.

Venere in pelliccia di Roman Polanski
Roman Polanski porta alle estreme conseguenze e forse al suo risultato più compiuto quella combinazione di cinema da camera e di gioco al massacro che dall’esordio de Il coltello nell’acqua fino a La morte e la fanciulla e Carnage costituisce la cifra più peculiare della sua filosofia autoriale: un magnifico duello articolato su piani e sfumature innumerevoli che travalica il palcoscenico e sfonda lo schermo.

La quinta stagione di Peter Brosens & Jessica Woodworth
Una fenomenale idea di partenza che si trasforma in una fulminante parabola apocalittica di grande rigore estetico e di ammirevole sintesi stilistica: l’improvviso, inspiegabile azzeramento del ciclo stagionale in uno sperduto villaggio belga è l’incubo più affascinante della stagione e la più plausibile – quindi la più inquietante – fine del mondo nell’Europa di oggi.

No: I giorni dell’arcobaleno di Pablo Larraín
L’episodio più accessibile dell’excursus di Pablo Larrain nel Cile militarizzato di Augusto Pinochet è un vivace caleidoscopio analogico che mescola sapientemente realtà e verosimiglianza, fiction e repertorio, cronaca e senno di poi, un contagioso, piccolo miracolo di minimalismo e di ricerca: cinema civile nella sua declinazione più nobile, intelligente e appassionante.

To the Wonder di Terrence Malick
La tappa più arrischiata e fragile di tutto il percorso umano e professionale di Terrence Malick, un componimento su pellicola in perenne equilibrio fra meraviglioso e ridicolo: l’esempio, ambiziosissimo e inevitabilmente imperfetto, di un’Arte che ci solleva da terra riavvicinandoci ai massimi sistemi e riportandoci a confrontarci con il divino/lo spirituale che ci sovrasta.

Holy Motors di Leos Carax
Una testamentaria, caleidoscopica preghiera destinata a dividere nella quale i pregi si mescolano e spesso coincidono con i difetti, una visione sofferta ed esasperante che, amata e odiata al contempo, ci restituisce una prospettiva genuinamente spiazzante sul cinema e un autore, dato quasi per disperso, fra i più eloquenti e creativi di tutto il panorama francese contemporaneo.

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