I migliori film del 2017 secondo Andrea Bosco

Di Andrea Bosco
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10. Frozen Time: Il tempo tra i ghiacci – Bill Morrison

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Incantevole, ipnotica operazione di archeologia della celluloide, il lavoro di assemblaggio del documentarista Bill Morrison sugli oltre 500 rimasugli di pellicola fortuitamente rinvenuti nel gelo dello Yukon è un fantasmagorico viaggio nella (prei)storia della Settima Arte attraverso le sue macerie e i suoi scarti, una struggente elegia della decomposizione che funge da inestimabile “verifica incerta” dei riti di passaggio dell’America del Novecento.



 
9. Detroit – Kathryn Bigelow

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Precisa sineddoche di mezzo secolo di Incubo Americano, i disordini e le tensioni che travolsero il Michigan diventano nelle mani della più agguerrita combattente della Hollywood del terzo millennio una fornace ribollente di rabbia e di militanza, lo spaccato di un passato attualissimo – e di un presente retrivo – che, specie nella minuziosa mostra delle atrocità e negli occhi impotenti che popolano il secondo, insostenibile atto, si traduce nel più stentoreo dei richiami di coscienza.

8. A Ciambra – Jonas Carpignano

Dietro le convenzioni del romanzo di formazione, un cristallino e autentico saggio di prospettiva che ricalibra i presupposti del nostro Cinema del Reale, restituendogli l’urgenza e la naturalezza della lezione rosselliniana e ponendole in piena sintonia con le coordinate dell’oggi: un’opera pulsante e vivissima, coraggiosa e responsabile, capace di porre sullo stesso piano i suoi personaggi e i suoi spettatori in un mirabile equilibrio di etica e di empatia.

7. Il cliente – Asghar Farhadi

Mentre la produzione antagonista locale si estingue tra la scomparsa di Kiarostami e la fuga all’estero dei suoi epigoni, Asghar Farhadi fa ritorno nel suo Iran e descrive il frenetico, anarchico e irrazionale vento di cambiamento in atto in un contesto storico-sociale in bilico fra progresso e arretratezza, vergogna e vendetta, giudizio e ambiguità, riconfermando la straordinaria, insolubile problematicità del suo cinema e il suo ruolo indiscusso – che già fu di Bergman – di massimo regista del Dubbio.

6. Sieranevada – Cristi Puiu

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Labirintica, vertiginosa e torrenziale veglia funebre di un Paese contaminato dalla paura, paralizzato dal sospetto e stroncato dalle proprie bugie: l’assurda, nevrastenica pochade della morte allestita da Cristi Puiu in un polveroso appartamento medio-borghese della periferia di Bucarest è un impressionante, travolgente studio di caratteri degno del miglior Cassavetes che consolida, se fosse ancora necessario ribadirlo, la cinematografia rumena come la più florida e interessante realtà audiovisiva d’Europa.

5. L’altro volto della speranza – Aki Kaurismaki

Ultimo antidoto rimasto a uno scenario continentale guidato da cinismo, individualismo e sfiducia, l’umanissima misantropia del più grande fiabista contemporaneo si concretizza in una nuova, preziosa oasi di profonda compassione e di salvifico umorismo, in quel connubio portentoso di cruda quotidianità e di dolce utopia che, prima di lui, era riuscito soltanto a Chaplin: summa estetica e filosofica di tutta una carriera passata dalla disperazione alla speranza del titolo, l’addio di Kaurismaki è la parabola universale di cui abbiamo tutti pienamente bisogno.

4. Una vita – Stephane Brizé

L’autore de La legge del mercato affronta – citiamo le parole di Tolstoj – “la massima testimonianza narrativa francese dopo Les Misérables” e ne esce trionfante: tradotto in immagini di marcata impronta impressionistica, narrato per silenzi crepitanti ed ellissi disorientanti, inscatolato da un opprimente 4:3 di magica architettura visiva, il capolavoro di Guy de Maupassant si trasfigura in uno stratificato, stupefacente tripudio di pura regia che ci pone di fronte, con infinita malinconia, all’inesorabile fine delle nostre illusioni.

3. Silence – Martin Scorsese

Smaniosamente inseguita per oltre vent’anni, la conclusione della trilogia teologica di Martin Scorsese è il monumentale coronamento di tutta una carriera e, stando alle sue stesse parole, di “un’intera vita fatta di film e di fede”, un percorso di tormento e di estasi attraverso le basi, le contraddizioni e le domande inesauste e inesaudite del confronto con l’infinità e l’ineffabilità divina: partendo dalle orme di Mizoguchi verso la cifra più personale di sempre, un’opera definitiva ma sfuggente all’insegna della follia, della brutalità e della magnificenza.

2. Dunkirk – Christopher Nolan

Astraendo e rarefacendo quel suo cinema-congegno che con le sue incarnazioni più recenti aveva fatto prevalere la struttura sull’identità, Nolan ritrova lo smalto, la profondità prospettica e la lucidità dei suoi esordi, trasformando la grande Storia nel palcoscenico multilivello di una tragedia concentrica e portando all’estremo il suo personale discorso sul Tempo, sulla sua misura e sulla sua concezione: una immersiva e sovrumana sinfonia dello sguardo filmico composta con la dovizia del navigato arrangiatore per immagini, un approccio alla narrazione che si manifesta in una clamorosa apoteosi dell’atto che condanna all’obsolescenza la tradizione del kolossal bellico degli ultimi 40 anni.

1. Jackie – Pablo Larraín

Jackie

Lavoro di pura mitopoiesi, riflessione sulla natura stessa del racconto e delle sue implicazioni morali, meditazione dolente e rassegnata sulla fuggevolezza, sulla labilità e sulla crudeltà della Memoria che ineluttabilmente sfuma e di ciò che, insomma, ci resta: con Jackie, Pablo Larraín evade, spiazzando le premesse, destrutturando la fabula e riadattando per la prima volta una sceneggiatura non sua, dai limiti del progetto su commissione e, sorretto dalla gigantesca e mimetica performance di una strepitosa Natalie Portman, si impone come la voce e, soprattutto, l’occhio più peculiare e proteiforme di un’intera generazione di cineasti.

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