Venezia 71 – Giorno 10 – Video

Di Andrea Bosco
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Il cast di Theeb

Il cast di Theeb

Con l’approssimarsi delle battute finali della Mostra, Orizzonti affila gli artigli e presenta uno dei suoi concorrenti più indimenticabili, il film – immancabile in ogni edizione – su cui pubblico e critica si rompono la testa alla ricerca del motivo della sua esclusione dalla sezione principale. L’ottimo Theeb, opera prima dell’anglo-saudita Naji Abu Nowar, è tutto ciò che una buona manciata di titoli di Venezia71 avrebbero dovuto rappresentare, dall’esordio di eccellenti speranze promosso immediatamente fra i grandi (ciò che non è stato Sivas) alla reminiscenza storica con alle spalle il declino dell’Impero Ottomano (ciò che non è stato The Cut), ma soprattutto la metafisica traversata desertica come occasione per crescita e coscienza di sé (ciò che non è stato Loin des hommes).
Formalmente ineccepibile e spettacolare (impensabile sia stato girato con un budget stiracchiato), fotografato con invidiabile eleganza, Theeb è un debutto già maturo e riconoscibile che, forse con la sola concorrenza dell’indiano Labour of Love, difficilmente si lascerà scappare il Premio de Laurentiis di questa edizione.

Andrej Konchalovskiy

Sarà che le aspettative erano bassine, specie se si considera il disastro stroncacarriere de Lo schiaccianoci 3D, ma il ritorno di Andrej Konchalovskiy al cinema d’autore puro, pur non collocandosi fra le vette dell’edizione, fa la sua discreta figura: Belye nochi pochtalona Alekseya Tryapitsyna (The Postman’s White Nights) interrompe un interminabile declino fatto di marchette made in USA (si pensi solo a Tango & Cash), di fiacchi adattamenti televisivi (l’imbarazzante Odissea con Armand Assante) e di resurrezioni solo apparenti (il mediocre La casa dei matti, generosissimamente ricompensato con il Gran Premio della Giuria a Venezia59) con un’operina che si ricollega idealmente agli esordi in piena era sovietica girati fra paesini e campagne prima del fluviale Siberiade. Proprio a pellicole come Storia di Asja Kljacina che amò senza sposarsi viene da pensare assistendo a questo libero accumularsi di situazioni sulle sponde del lago Kenozero dove il tempo pare essersi fermato e a cui le vicine stazioni spaziali della regione di Arkhangelsk sembrano aver negato ogni diritto a esistere, dove ogni speranza di reinventarsi scoprendo la città è destinata al fallimento e dove non si riesce a essere padroni nemmeno dei lucci appena pescati sotto casa.



Konchalovskiy si prende i suoi tempi, indugia in episodi di vita quotidiana con il contributo fondamentale del suo cast di attori non professionisti imbastendo conversazioni e caratterizzazioni a tratti spassose, e anche se la tematica non è certo nuova e ogni tanto trascende nel patetico, la fattura è di prima classe e non mancano le immagini memorabili, a cominciare dai campi lunghi e lunghissimi sullo specchio d’acqua che assume forti connotati di protagonista.

Alexandra Daddario, Anton Yelchin e Ashley Greene

Se solo esistesse ancora la categoria, avremmo concluso la giornata di ieri con l’ideale film di Venezia Mezzanotte, andando in gloria al dodicesimo rintocco con una semplice e rinvigorente ora e mezza di spaventi a bilanciare il rigore dei giorni scorsi: ci volevano la cinefilia bulimica e incontrollata di quel mattacchione di Joe Dante e il suo Burying the Ex per riprendere fiato e per perderlo subito dopo con una sequenza pressoché ininterrotta di risate in un mondo orgogliosamente B fra Val Lewton, Mario Bava e papà Roger Corman – tutti, naturalmente, esplicitamente citati -, dove i canoni del teen movie e dell’horror da drive-in vengono allegramente tirati in ballo, ribaltati e presi per i fondelli. E così, fra stelline del calibro di Anton Yelchin (il Chekov del reboot di Star Trek), Ashley Greene (la Alice di Twilight) e Alexandra Daddario (la Lisa di True Detective) si manda festosamente il cervello in vacanza – anche se sottilmente si può vedere tutto come una fantasia sull’elaborazione del lutto -, con una libertà d’azione e un anticonformismo corroboranti (siamo di fronte a qualcosa di decisamente più provocante e di meno sessuofobo rispetto alla media del genere, in ambito mainstream).

Certo, alla fine viene il dubbio se ci sia ancora posto per nonno Dante in un’epoca dominata da eredi scatenatissimi come Edgar Wright, e il materiale non è tutto di prima mano (non manca la solita svomitazzata giallo-verde in stile L’esorcista), ma, se lo si prende per quello che è, un po’ di sano divertimento cialtrone non fa mai troppo male.

January Jones, Ethan Hawke, Zoe Kravitz e Andrew Niccol

Si resta negli Stati Uniti – fin troppo, direi – per il film di chiusura del Concorso, il dramma bellico Good Kill, con cui il fantasioso Andrew Niccol rinuncia per una volta agli incubi distopici che popolano il suo cinema (Gattaca, The Truman Show – solo sceneggiatore -, In Time) per immergersi nella realtà comunque assurda e paradossale degli aggiornamenti e dell’involuzione dell’arte della guerra. Attraverso i patemi e i rimorsi di coscienza di un esperto pilota di droni (Ethan Hawke), l’autore di Lord of War vuole presentare il lato deumanizzato di operazioni militari condotte con lo stesso spirito di una partita alla Playstation, ma scade nel ritratto stereotipato e nel didascalismo (i membri dell’equipe sono, nell’ordine: il protagonista veterano tormentato e alcolizzato, la recluta promettente e coscienziosa che frigna di fronte ai monitor, lo stronzetto retrogrado e il colonnello paterno e progressivo) e in una visione d’insieme ambigua e artificiosa che non si sbaglierebbe a definire parafascista (gli USA restano pur sempre i legittimi poliziotti del mondo e il fine giustifica sempre i mezzi, anche quando si tratta di bombardare dei civili innocenti fino a prova contraria).

Se già un’opera controversa come The Hurt Locker suscitava sdegno nella sua idealizzazione del conflitto come necessità intrinseca all’essere umano, Good Kill fa pure peggio, con un atteggiamento autoassolutorio e reazionario da vomito che forse dal regista non ci si aspettava, sacrificando le sue rinomate intuizioni visive e confermandolo ancora una volta, casomai ce ne fosse bisogno, come un soggettista straordinario, ma anche come uno sceneggiatore modesto e come un ancor peggior direttore di attori e regista.

Conclude con un crescendo inarrestabile la Settimana della Critica – che si impone, a questo punto, come la divisione insospettabilmente più riuscita dell’edizione – il serbo Ni?ije dete: l’esordio del trentanovenne Vuk Rsumovic è forse la vetta di quanto visto finora nella sezione, una sorta di variazione del canone de Il Ragazzo selvaggio, ma laddove il piccolo protagonista truffautiano finiva nelle mani severe e amorevoli del pedagogo Jean Itard in un lungo processo di scoperta di sé, il meno fortunato Haris vive a cavallo dell’ultimo conflitto balcanico in una Serbia sporca, corrotta e ostile, verso un finale inevitabilmente destinato al campo di battaglia. Silenzioso, rigoroso e a tratti durissimo, Ni?ije dete è il candidato ideale al massimo riconoscimento della SIC e un esempio di cinema est-europeo di grande potenza espressiva.

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