Cinquanta sfumature di grigio

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Per calarsi nella dimensione delicatissima del melodramma erotico sono essenzialmente tre i fattori dei quali bisogna tenere conto: la chimica, l’ambiguità e l’audacia.
Il primo garantisce l’annullamento di quella struttura finzionale che allontana il personaggio tanto dallo spettatore quanto dal suo partner sulla scena e il risultato è un legame credibile, avvincente, pulsante: non erano di certo corpi statuari o amplessi acrobatici a rendere film tutto sommato casti (specie per gli standard odierni) quali I ponti di Madison County o La mia droga si chiama Julie due concentrati irresistibili di carica sensuale e di elettricità carnale.
Il secondo rappresenta quell’insieme di contraddizioni, di ostacoli e di scontri che suscita e tiene in moto gli eventi, quell’apparato che, in altre parole, distingue la stasi della compiutezza dalla dinamicità della sua ricerca, ed è su questo vuoto da colmare che recenti capolavori come Nell’intimità di Chereau o Luna di fiele di Polanski basano la loro necessità e la loro urgenza.
Se i primi ingredienti mancano, si può in fin dei conti ripiegare sul terzo, andando avanti per accumulo nella speranza sempre più vacua che nell’era di Youporn ci siano ancora tabù da infrangere e platee da scioccare, come fu un tempo per esperimenti oggi irrimediabilmente datati alla pari di Ecco l’impero dei sensi di Oshima o de Il portiere di notte della Cavani.



Cinquanta sfumature di grigio, per quanto il men che modesto materiale di partenza lasciasse ben pochi dubbi, fallisce disastrosamente nel mettere in atto i tre elementi di cui sopra.
Per cominciare, benché avviluppate già dopo cinque minuti in un gioco di sguardi, di cenni maliziosi e di labbra mozzicate, fra le figurine monodimensionali del miliardario Christian Grey (il modello irlandese Jamie Dornan, carismatico e fascinoso quanto una tavola di compensato) e della studentessa finto-sciatta Ana Steele (una riproposizione in sedicesimo della Anne Hathaway pre-Oscar a nome Dakota Johnson) non traspare la minima intesa, né coi vestiti ancora addosso, lungo interminabili chiacchiere sulla natura del loro rapporto filmate ora con i soliti campi/controcampi da piccolo schermo, ora con soluzioni visive raccapriccianti (la spiegazione del contratto travestita da colloquio d’affari, fra luciacce soffuse e silhouette), né senza, con le tanto strombazzate sequenze da bollino rosso a tradire solo un profondo senso di imbarazzo generale.

Se non è possibile prendere sul serio la coppia per via di due interpreti di rado così impacciati e visibilmente a disagio è colpa anche, venendo al punto successivo, della personalità pressoché nulla dei protagonisti: Grey è sostanzialmente un agglomerato di fregole da tinello (l’uomo che non deve chiedere mai, il bel tenebroso dal passato difficile, il principe azzurro – rigorosamente straricco – con un’Audi fiammante al posto del cavallo bianco), Anastasia è il consueto ectoplasma femminino insicuro e imbranato in cui milioni di casalinghe annoiate sono tenute a immedesimarsi nello stesso modo in cui le loro figlie o amiche più giovani, fino a un paio di anni fa, vedevano nella Bella Swan della saga di Twilight il proprio potenziale alter ego.

L’universo altrettanto ammiccante della quadrilogia di Stephenie Meyer non è evocato a caso, e in ciò risiede l’unico spunto di interesse perlomeno semiologico della pellicola: il romanzo della londinese E.L. James che è alla sua origine era infatti, nella sua forma embrionale, un ampliamento dilettantesco delle avventure della famiglia Cullen, una tradizione letteraria riservata ai seguaci di particolari fenomeni di costume comunemente conosciuta col nome di fanfic, un sottogenere ormai collaudato di cui l’operazione della regista Sam Taylor-Johnson è a tutti gli effetti la prima trasposizione cinematografica di rilievo.
Pubblicati a puntate su siti amatoriali sfruttando le aspettative e i pruriti di nutrite schiere di fan, questi esercizi di scrittura fanno dell’attesa e della materializzazione delle fantasie di turno il loro cardine, tenendo di volta in volta il lettore in sospeso su ciò che verrà dopo. Ed è in questo, sinteticamente, che si traduce l’essenza stessa dell’adattamento per il cinema di 50 sfumature di grigio, in quel continuo rinvio di una risoluzione che non arriverà mai, nel fremito di una manciata di pagine che si conclude con un niente di fatto, almeno fino al prossimo capitolo e via così, in un rimpallo a tratti masturbatorio che è, alla fine, un esercizio di sadomasochismo e di titillamento ben più complesso e singolare delle pratiche illustrate dal film, circoscritte a un paio di sessioni di bondage all’acqua di rose e a sculacciate da sagrestia che non diventano mai davvero gesti di prevaricazione e di sottomissione, ma si limitano unicamente a soddisfare le curiosità del pubblico più malizioso.

Si finisce così all’ultimo punto, comicamente frenato da nudità calcolate al millimetro e da una visione del sesso così priva di passione e di coinvolgimento da farsi pura patina incapace di trasmettere (e di provocare) qualsiasi eccitazione, e se l’amore romantico – che Ana dovrebbe essere simboleggiare – si ferma a qualche citazione sparsa dei canoni più classici della narrativa sentimentale anglosassone (le sorelle Bronte, Austen, Thomas Hardy), quello puramente fisico – incarnato da Grey – resta a beneficio di un bacino d’utenza da non turbare troppo (in USA il film sarà soltanto vietato ai minori non accompagnati) e da solleticare abbastanza in vista degli inevitabili, minacciati sequel.

Voto 3

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