Venezia 72 – Giorno 3

Di Andrea Bosco
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Radha Mitchell, Sue Brooks e Odessa Young - Looking for Grace

Radha Mitchell, Sue Brooks e Odessa Young - Looking for Grace

Sorgono i primi dubbi sull’identità e sulla coesione dei vari elementi del Concorso dopo la giornata di ieri: come conciliare, appunto, l’impresentabilità di un comune drammettino corale nella desolazione dell’Outback come Looking for Grace con la cellula impazzita che avrebbe, come ampiamente prevedibile, stravolto la Mostra con la sua manifesta superiorità?

Andando per ordine, il ritorno alla regia dell’australiana Sue Brooks è poco più di una storiella a base di incomprensioni familiari e di insoddisfazione borghese pretestuosamente scombinata con i criteri della scomposizione cronologica e prospettivistica degli eventi. Non basta, di fatto, vivacizzare l’insieme con una cornice hyperlink à la Iñárritu per rendere interessante una vicenda basata su poco o niente, qui la solita adolescente in esplosione ormonale fuggita da casa e inseguita dagli amorevoli e frustrati genitori – la Radha Mitchell di Melinda & MelindaRichard Roxburgh, assai più sfatto di quanto lo ricordassimo come villain di Moulin Rouge! e sproporzionatamente efficace rispetto al resto del film e del cast -, con situazioncine superflue a tentare di arricchire l’insieme (l’avvocato ottuagenario allupato, la scappatella del padre colto da nausea, l’adunata domestica di variopinti mostri della middle-class a conforto della famiglia colpita) e un facile e disonesto escamotage di sceneggiatura di natura luttuosa – lo stesso, peraltro, del precedente Japanese Story – per uscire strategicamente dall’impasse di un intreccio stagnante e banalotto.

Il cast di Francofonia di Alexandr Sokurov

Il cast di Francofonia di Alexandr Sokurov

Sembra quindi provenire da un altro Mondo o, perlomeno, da un altro Festival (Cannes, ovviamente, ma è una polemica che non ci riguarda) la seconda pellicola in Concorso di ieri, che per una scarsa ora e mezza riavvicina la platea all’essenza pura, misteriosa e incantatrice del Cinema puro: il Francofonia di Aleksandr Sokurov non è, come poteva inizialmente evocare, una seconda Arca russa, ma il ritorno del cineasta russo alla forma svincolata e sciolta di quelle Elegie che per vent’anni buoni della sua carriera sono state le fondamenta liriche e dialettiche del suo universale e interattivo itinerario attraverso il Tempo e lo Spazio.



Ritorna infatti il Viaggiatore (Sokurov stesso, qui non solo come voce, ma anche come profilo) di Elegia del viaggio e del già citato Arca russa – ma i punti in comune con quest’ultimo, sostanzialmente, si esauriscono qui -, impegnato in un volo free-form crono-spaziale nel Louvre dell’occupazione nazista che si estende a dismisura fino a diventare un universale inno alla fragile necessità dell’Arte, disseminato di libere associazioni (il parallelo della Parigi sotto Hitler con la Leningrado sovietica) e di excursus immaginifici, con un bizzosissimo Napoleone (Vincent Nemeth) e la Marianne (l’esordiente Johanna Korthals Altes) a inseguirsi per le sale deserte del Museo. Poliedrico quanto il Godard del terzo periodo o il Patricio Guzmán di El botón de nácar, Sokurov realizza un capolavoro cubista e sregolato (fra i tradizionali giochi di formato e il solito, straordinario lavoro straniante sul sonoro) che è forse il primo vero testamento del secolo appena passato, un commovente, esorbitante assalto ai sensi e alla sensibilità dello spettatore che, incluso nella sezione competitiva, fa e farà inevitabilmente torto al resto dei concorrenti.

Joel Edgerton, Dakota Johnson, Johnny Depp e Scott Cooper

Joel Edgerton, Dakota Johnson, Johnny Depp e Scott Cooper

Quasi nulla da dire, poi, su Black Mass di Scott Cooper, uno stanco, pedissequo centone scorsesiano non all’altezza delle sue ambizioni e privo della benché minima personalità: traspare ben poco, se non l’ennesimo discorso sulla desolazione del potere e sulla fascinazione del Male, fra un’efferatezza e l’altra di James “Whitey” Bulger, Caligola bostoniano in ascesa (un Johnny Depp per una volta lontano da ceroni e parrucconi, ma che non va oltre la propria cronica inespressività), reso sempre più solo dalla propria paranoia e dal proprio isolamento, e il pessimismo cosmico che vede la malavita e la presunta giustizia (l’agente federale interpretato da Joel Edgerton) uniti sotto la stessa cappa di corruzione non è che la scoperta dell’acqua calda.

E se Cooper riesce persino a sprecare un cast nutritissimo – perché il fratello senatore di Bulger (Benedict Cumberbatch, sempre inadeguato sul grande schermo) non entra mai nel vivo degli avvenimenti? che ne è della moglie (Dakota Johnson), sparita a poco più di mezz’ora dall’inizio? – e a infilare un affrettatissimo finale che lascia più di un punto in sospeso, non resta che dichiarare Black Mass un autentico fallimento.

Sorprende in positivo, invece, il primo esemplare dell’insolitamente esigua delegazione francese, il ritorno di Xavier Giannoli al Lido a tre anni dal fallimento del farsesco Superstar.

Catherine Frot

Marguerite prende tutto sommato l’avvio dalle premesse di molte sue opere precedenti, ossia l’incubo incontrollabile della mistificazione – quella “a fin di bene” di À l’origine, quella parossistica di Superstar -, ma questa volta, senza il freno della coscienza civile del primo o il fiato corto da barzelletta stiracchiata del secondo, gira un inattaccabile elogio della purezza artistica che richiama a tratti la mostruosità umana e compassionevole dell’Ed Wood burtonesco, sottobosco freak compreso: la storia, ridicola e straziante, di una nobildonna melomane incapace di rendersi conto della sua totale, comica inadeguatezza alla disciplina del canto e la paradossale, ipocrita cappa di compiacenza tenuta in piedi da chi la circonda, diventa per Giannoli anche un coraggioso, totale atto di fede nei confronti del melodramma, tanto formale (la rigida divisione in atti, la teatralità dell’insieme) quanto poetica, come nell’apparentemente improvvida evoluzione drammatica della seconda metà o nell’intensissimo finale, nel quale la discesa nella follia della protagonista (una fenomenale Catherine Frot, Coppa Volpi già in mano) le permette di realizzare nella vita quella tragedia che le era negata nell’Arte. C’è forse fin troppa carne al fuoco nonostante le due eppur sostenibilissime ore abbondanti di durata – sotto il mirino di Giannoli ci sono anche l’opportunismo della critica e il cinismo dell’avanguardia -, ma il film resta comunque perfettamente compiuto e ricco di personalità.

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