Venezia 72 – Giorno 4

Di Andrea Bosco
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Frederick Wiseman

Frederick Wiseman

Se la sezione principale continua imperterrita a zoppicare e a dover fare i conti con l’insuperabile baratro che lo separa dal film-mondo di Sokurov, quella non competitiva sfodera il suo asso e stravolge una partita fatta finora di mani perlopiù deboli e dimenticabili.

L’ottuagenario Frederick Wiseman, dopo il tradimento cannense di National Gallery, torna all’affezionatissimo Lido con un nuovo saggio entomologico monstre di inusitata portata, un gremito formicaio di piccole, quotidianissime storie che, come di consueto, inizia dal minuzioso studio di una minuscola, circoscritta realtà per evolvere nella riflessione su una cosmica, generalizzata condizione esistenziale. In Jackson Heights parte dall’omonimo quartiere-crogiuolo di New York, considerato uno dei più avanzati esempi di melting pot urbano del mondo, e si snoda, lungo tre ore abbondanti di negozietti, di luoghi di culto, di collettivi, di adunanze e di semplici chiacchiere da vicinato in un appassionato elogio del multiculturalismo, senza timore di svelarne il lato ancora fragilmente irrequieto e con lo stesso occhio che, come già dai tempi di Welfare e di Hospital, dietro a una clinica, imperturbabile oggettività, si fa sempre di più voce di un ceto medio-basso in progressiva via di estinzione.

Ne viene fuori una mappatura caleidoscopica di infinite, ordinariamente uniche commedie umane, fra squarci di malinconia (la congrega di magliaie che discetta di cimiteri e di sepoltura in genere), parentesi esilaranti (la lezione di inglese per tassisti), tuffi nell’assurdo di tutti i giorni (gli aspiranti alla cittadinanza americana che non sanno spiegare i loro motivi) e la solita capacità di trasformare piccole battaglie civili in epici scontri fra Davide e Golia, dalle proteste della transessuale discriminata alla preparazione del Pride, dando il meglio di sé soprattutto con il leitmotiv della resistenza contro il piano di riqualificazione territoriale (il cosiddetto business improvement district) che rischia di spazzare via l’intera comunità.
Un nuovo, imperdibile capolavoro, insomma, per il padre del documentario moderno, e una testimonianza forse, visti i tempi, ancora più necessaria del solito.



Drake Doremus, Kristen Stewart e Nicholas Hoult - Equals

Drake Doremus, Kristen Stewart e Nicholas Hoult - Equals

È tempo, però, di ributtarsi nel Concorso, e ciò non potrebbe avvenire con uno scarto più traumatico e demoralizzante: il fantascientifico Equals è infatti un nefando prodottino da multisala concepito da (anzi, assai più probabilmente, per) persone totalmente a digiuno di cinema e di letteratura distopica.

Il giovane Drake Doremus voleva forse trasferire in un’ottica prettamente allegorica i connotati ultrasentimentali del suo universo giovanilistico-ipersensibile (quello di Like Crazy, per esempio), ma gira di fatto il remake hipster-sfigato de L’uomo che fuggì dal futuro – recuperandone persino intere caratteristiche, come le scenografie diafane e squadrate -, con attori di supporto in visibile disagio (gli australiani Guy Pearce e Jacki Weaver) e una coppia di protagonisti insostenibilmente languidi, ancorché il Nicholas Hoult di Mad Max: Fury Road e la Kristen Stewart di Twilight si rivelino, nella loro tragica inespressività, perfettamente adeguati al loro ruolo di rigidissimi manichini de-emozionalizzati.
Il risultato è un’antologia inarrestabile di ridicolo involontario spinto ai massimi livelli, finora il titolo più indifendibile di tutto il programma della Mostra.

Eddie Redmayne, Matthias Schoenaerts, Amber Heard, Alicia Vikander, Tom Hooper - The Danish Girl

Eddie Redmayne, Matthias Schoenaerts, Amber Heard, Alicia Vikander, Tom Hooper - The Danish Girl

Appena un po’ meglio, ma comunque lontano dalla sufficienza, si assesta il concorrente della mattinata, l’atteso The Danish Girl di Tom Hooper: rinunciando alle ventate sperimentali di Les misérables e rigettandosi nel più innocuo formalismo de Il discorso del re, Hooper firma un’operina calligrafica, superficiale e pesantemente leziosa incapace di comunicare quella confusione identitaria e gerarchica dei sessi che avrebbe reso il progetto qualcosa di più di un semplice, agiografico omaggio alla causa LGBT.
E svela il bluff e tutti i limiti di un interprete come Eddie Redmayne, nel medesimo ruolo de La teoria del tutto (un individuo prigioniero del proprio corpo), che si produce in una stucchevole sequela di smorfie e mossette che rendono la sua Lili Elbe, pioniera scandinava del transessualismo, non uno studio accurato del femminino, ma solo una macchietta poco credibile (il lavoro di John Lone di M. Butterfly, per dire, aveva ben altro spessore).

Di gran lunga meglio la sua partner Alicia Vikander, effettiva protagonista del film (come già fu Felicity Jones nella biografia di Hawking), misurato fulcro emotivo di un intreccio sonnacchioso, pavido e inutilmente declamatorio.

Juliette Binoche - L'attesa

Juliette Binoche - L'attesa

Notevole sorpresa, invece, L’attesa di Piero Messina, che inaugura la nutrita comitiva nostrana e che incassa programmaticamente i primi, immeritati fischi dell’edizione: l’ermetico e seducente kammerspiel sull’assenza messo in scena dall’assistente alla regia di Paolo Sorrentino è un’opera audace e frastornante, dominata da un’estetica soverchiante e polarizzante di irresistibile valore ipnotico fatta di spericolati movimenti di macchina, di geometrizzazioni totalizzanti e di lunghe pause, un esercizio – inevitabilmente freddo, ma comunque di indubbio fascino – di ricerca immaginifica che, esattamente come l’Under the Skin di Glazer nei confronti dell’omonimo romanzo di Michel Faber, riduce l’ispirazione de La vita che ti diedi di Pirandello a una serie di suggestioni e di astrazioni di sfuggevole comprensione, lasciando nell’indeterminatezza gli elementi più scontati: che intesa si crea fra la giovane Jeanne (Lou de Laâge), in visita al casolare siciliano del fidanzato, e la di lui madre Anna (Juliette Binoche, meravigliosa e dolente), speculari e gemelle già nel nome? qual è il ruolo del tuttofare Pietro (Giorgio Colangeli) nell’economia della storia?

Tutte domande, fortunatamente, senza una risposta univoca e determinata, base di un’opera prima rigorosa e già personalissima che vedremmo volentieri insignita di un coraggioso Leone d’Argento.

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