Venezia 72 – Giorno 8

Di Andrea Bosco
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Light Years

Light Years

Rispetto alla scorsa edizione, ci si vede costretti ad accettare mestamente a pochi giorni dalla chiusura il livello poco più che modesto delle divisioni collaterali del programma, incapaci di risollevare con qualche bella sorpresa le delusioni del Concorso. Dalle Giornate degli Autori si affaccia l’indiano Island City, trittico di “racconti pazzeschi” sulle manie e sulle fragilità della società indiana contemporanea, ma si arena su un grottesco insistito, sulla scarsa congruenza degli episodi, sulla grana grossa dell’umorismo (il ghignante massacro della prima storia, la dipendenza da tv spazzatura della seconda) e su svolazzi di malinconia fuori luogo (il finale alla Her del segmento conclusivo).

Appena un po’ meglio, ma ben distante dall’integrità delle sorprese dell’anno passato, è il concorrente odierno della Settimana della Critica, l’inglese Light Years, ma il ritratto pre-adolescenziale a opera di Esther May Campbell mescola in maniera un po’ risaputa e poeticistica il senso ludico della magia dell’infanzia con le asperità del passaggio alla vita adulta, fra dialoghi che ambiscono al lirismo ma che alla lunga suonano solo sentenziosi e un tono filosofeggiante da straniante racconto di formazione à la Re della terra selvaggia.

Gianfranco Pannone per L'esercito più piccolo del mondo

Gianfranco Pannone per L'esercito più piccolo del mondo

È dalla sezione non competitiva, invece, che provengono ancora una volta le testimonianze più preziose e le emozioni più autentiche: ne è la prova il breve, straordinario documentario L’esercito più piccolo del mondo, ravvicinatissimo diario collettivo del periodo di prova di un gruppo di reclute delle Guardie Svizzere alle prese con il disorientante labirinto di bellezza vaticano, con i minuscoli e insormontabili ostacoli dell’adattamento alla cinquecentenaria ritualità del corpo e con le contraddizioni di un apparato militare chiamato a ergersi custode del massimo punto di riferimento religioso occidentale ma prigioniero del proprio retaggio cerimoniale.



Gianfranco Pannone ne riprende le tappe formative più tradizionali (l’addestramento, le gite, gli episodi di cameratismo, gli incarichi) e azzecca una meta-riflessione su forma ed estetica dei sistemi – è un’apparenza fatta di sgargianti uniformi e di rigido protocollo a dare un senso all’istituzione o c’è dell’altro? – che funge anche da metafora della rappresentazione e del linguaggio-cinema stesso. I momenti memorabili sono tantissimi (uno su tutti, l’immagine mozzafiato del piantone che “sbircia” da distante il Giudizio Universale della Cappella Sistina), l’evidente status di progetto su commissione è aggirato da sottili impertinenze (geniale l’impiego di Papa Bergoglio come comparsa e indimenticabile la sua passeggiata solitaria fra uffici e cassonetti) e l’occhio distaccato ma sensibile di Pannone sa elevare una materia ricercatamente piccola (come titolo suggerisce) a questione universale.

Tanna

Tanna

Un piccolo sussulto proviene dalla sonnacchiosa Settimana della Critica con la tragedia aborigena Tanna, che mette in scena una variazione primitivista del canone di Romeo e Giulietta calandola nella realtà tribale, tanto intaccata dal passaggio della civiltà quanto ancora aggrappata a superstizioni e soffocanti tradizioni secolari, di un villaggio Yakel minacciato dalla violenza dei clan rivali. Se è vero che la cura formale resta ineccepibile (a partire dalle abbacinanti riprese vulcaniche) e che le abusatissime premesse di partenza trovano nella preponderanza degli ambienti e nella forza delle caratterizzazioni un vincente elemento di novità, viene da pensare che il tutto alla fine si presenti piuttosto edulcorato e messo al confortevole livello del pubblico di riferimento – quello occidentale -, facendosi tanto accessibile quanto privato del proprio fascino ancestrale e del proprio mistero (Un incendio visto da lontano di Iosseliani, per dire, era tutt’altra cosa) e che l’operazione, che sembra inizialmente possedere genuine coordinate documentaristiche, finisca per cadere vittima di un’eccessiva artefazione.

Wojciech Mecwaldowski, Paulina Chapko e Jerzy Skolimowski per 11 MInut

Wojciech Mecwaldowski, Paulina Chapko e Jerzy Skolimowski per 11 MInut

Ci si aspettava molto, poi, da uno dei decani della manifestazione e da uno dei capolavori annunciati della stagione, ma il reticolo narrativo destrutturato di 11 minut di Jerzy Skolimowski lascia quantomeno perplessi: se lo scheletro hyperlink è effettivamente articolato con intelligenza e con una gestione non scontata delle prospettive, fra conflitti e idiosincrasie quotidiane che convergono a inarrestabile effetto domino nel lasso temporale del titolo, il girotondo esistenziale del regista polacco si esaurisce in un fuoco di paglia e in una generica – e a tratti iettatoria – disquisizione sul Fato di gratuito nichilismo e ad altissimo, soverchiante tasso di effettismo che culmina in un finale inutilmente roboante a base di ralenti, esplosioni, disgrazie, clangori e sfracellamenti che vorrebbe dirsi cosmico ma che assomiglia soltanto al climax di un Final Destination qualunque. Che Skolimowski sia un regista di impatto è cosa nota e buona, ma questa volta tutto sembra procedere in funzione di una mattanza finale che non ha nulla né di catartico, né di vibrante, ma solo di compiaciutamente irrisolto.

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