The Program

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Ascesa e caduta di uno dei miti sportivi più celebri e celebrati di sempre. Tra il 1999 e il 2006 Lance Armstrong vince sette Tour de France consecutivi, record tuttora imbattuto nella storia della corsa francese.
Giusto un attimo prima di iniziare a vincere tutto, però,  il ciclista ha la meglio nella sua gara più importante, quella che lo porta a sconfiggere il cancro, diventando ben presto uno dei più celebri testimonial della ricerca scientifica contro la malattia. Non tutti però credono alla favola di questo atleta rinato dalle sue stesse ceneri. Il giornalista inglese David Walsh, ad esempio, comincia ben presto a interrogarsi sulla possibilità che ci sia più di un legame tra Armstrong e il dilagante fenomeno del doping.
All’inizio si scontra con un muro di silenzio ma, pian piano che la verità inizia ad affiorare, ciò che il cronista si ritrova per le mani è la storia di una delle più grandi truffe sportive della storia.



Ci sono ben pochi dubbi sul fatto che Stephen Frears, dall’alto dei suoi 74 anni, sia uno dei registi più versatili in circolazione. Perfettamente a proprio agio sia che si tratti di svelare i retroscena della Corona inglese in The Queen che di tradurre in immagini romanzi tra di loro agli antipodi – si va da Le relazioni pericolose di Choderlos de Laclos ad Alta fedeltà di Nick Hornby, passando per l’eccezionale Rischiose abitudini di Jim Thompson –  il regista inglese è sempre apparso restio all’idea di sviluppare uno stile che ne connotasse l’opera in maniera forte, preferendo invece affrontare ogni film con spirito vergine, attitudine assai rara per un uomo di cinema con più di quarant’anni di attività alle spalle.
Quasi naturale quindi che, dopo il successo di Philomena, Frears abbia avvertito l’esigenza di non adagiarsi sugli allori per confrontarsi invece con il biopic di uno degli atleti più contraddittori e discussi del nostro secolo.
Materia piuttosto spinosa ma, al contempo, ghiotta perché le vicende di Lance Armstrong riflettono la definitiva perdita dell’innocenza di uno sport fino ad allora considerato ancora puro e la conseguente distruzione di una delle tante declinazioni di sogno americano.
A sostenere il regista in questa sfida c’è poi il notevole script di John Hodges (collaboratore abituale di Danny Boyle) che, evidentemente poco interessato al ciclismo o ai meriti sportivi di Lance Armstrong, si limita a vederlo come una sorta di tossico di lusso, sostanzialmente un cugino ricco degli eroinomani di Trainspotting. Solo che, se Renton e Sick Boy sviluppavano la loro dipendenza per pura pigrizia o per paura di mettersi alla prova, Armstrong è mosso al contrario da un’ambizione spropositata, pari solo alla sua consapevolezza di non avere i mezzi naturali per assecondarla.

Il film è tutto qui, nello sguardo avido e allucinato di Ben Foster (il suo livello di immedesimazione con il ciclista è impressionante) e nell’enorme quantità di aghi che, tra flebo e iniezioni di EPO, riesce a infilarsi in vena. E soprattutto nella scelta di non mostrare mai Lance Armstrong come una vittima inconsapevole degli eventi, bensì come perfettamente a proprio agio all’interno di un sistema criminoso, organizzato di fatto come un’associazione mafiosa.
In tal modo The Program crea un livello altissimo di complicità con uno spettatore perfettamente conscio, in ogni momento del film, delle oggettive responsabilità del protagonista anche prima che la sua parabola imbocchi l’inevitabile fase discendente.
Se da un lato questa struttura è suscettibile di raffreddare il materiale narrativo spiegando tutto e subito, ne rappresenta, dall’altro, il vero valore aggiunto, che contribuisce ad allontanare il film dalla classica biografia di un personaggio noto per farne invece qualcosa di più complesso: una vera e propria epopea criminale che più che a Rush (giusto per considerare un notevolissimo esempio recente di film a tema sportivo) sembra guardare idealmente a Scorsese e ai suoi Bravi ragazzi.
La scelta di Stephen Frears come regista, in quest’ottica, è perfetta.Il suo sobrio profilo stilistico  asseconda infatti le pieghe di un racconto dall’andamento tortuoso, così pieno di ripide salite e cadute improvvise da risultare simile a quelle tappe del Tour che, volutamente, sceglie di mostrare il meno possibile. Quasi a suggerire come la storia di Lance Armstrong verrà ricordata più per il suo triste epilogo giudiziario che non per i tanti e non meritati trofei.

Voto 7

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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