Premonitions

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L’agente speciale dell’FBI Joe Merriweather (Jeffrey Dean Morgan) riesce a collegare tra di loro una serie di delitti privi di movente ma accomunati dall’identico modus operandi. La natura degli omicidi lo spinge a chiedere l’aiuto del dottor John Clancy (Anthony Hopkins), un anziano psicanalista ritiratosi anni prima in seguito alla prematura scomparsa dell’amata figlia.
Clancy è in possesso di capacità sensitive che gli consentono di avere flash del futuro attraverso il semplice contatto con persone o oggetti.
Sulle prime restio a lasciarsi coinvolgere dall’indagine, Clancy scioglie qualsiasi riserva quando capisce che a correre il pericolo maggiore è Catherine (Abbie Cornish), la giovane collega di Merriweather che, fin da subito, l’uomo identifica con sua figlia. Il medico capirà ben presto che anche il serial killer con cui hanno a che fare è in possesso di poteri paranormali, forse addirittura di entità superiore ai suoi.



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E’ dai tempi di Seven (A.D. 1995) che la quasi totalità dei film che abbiano come oggetto le gesta di un serial killer finiscono con il riciclare suggestioni e idee visive già ben presenti in quel caposaldo del genere, con l’unico risultato di andare a sbattere giocoforza contro l’indistruttibile muro del già visto. Immagino sia anche per questo motivo che David Fincher, inizialmente interpellato come possibile regista di questo Premonitions, si sia guardato bene dall’andare oltre la semplice lettura dello script.
Resta da capire se l’incapacità di creare qualcosa che perturbi senza fare ricorso a un immaginario ormai ampiamente stereotipo sia più il frutto di una grave forma di pigrizia da parte di chi il cinema lo scrive – piaga che, del resto, affligge un po’ tutto il cinema di area mainstream – o se il problema risieda invece nell’incapacità della finzione di tenere il passo con una cronaca che, con cadenze quasi quotidiane, offre al pubblico realtà ben più agghiaccianti sulle quali non dormire la notte.
Premonitions  – ma l’originale Solace (Conforto), seppure meno immediato, è molto più calzante – sceglie la strada dell’accumulo per cui, nel tentativo di accrescere il fascino di un sottogenere abusato come quello a tema serial killer, decide semplicemente di giustapporvene un altro: il paranormale.
Oltre allo scegliere come protagonista un attore talmente schiavo dell’eredità di quello che è forse l’esempio più alto di film sull’argomento (Il silenzio degli innocenti) da aver impiegato metà della propria carriera nel tentativo – in verità molto poco riuscito – di scrollarsela di dosso, onde poi abdicare di fronte a un ruolo che, di fatto, rappresenta una variante buona di Hannibal Lecter.

A ogni modo Premonitions si mostra fin da subito esattamente per quel che è, un mix di atmosfere lugubri à la Seven opportunamente ibridate con La zona morta, Il sesto senso e qualsiasi altro film su gente con poteri paranormali che abbia avuto fortuna al cinema negli ultimi vent’anni. Il giovane regista brasiliano Afonso Poyart poi, dimostrandosi oltremodo voglioso di far vedere quanto sia bravo, gestisce i due generi di riferimento quasi come se stesse girando contemporaneamente due film, un noir e un thriller soprannaturale. Per il primo si rifà evidentemente al genio di Michael Mann e alle sue vedute aeree di autostrade di notte, spogliandole però di qualsiasi portato semantico queste potessero avere in Heat o Collateral.
Quando poi si concentra sul lato più onirico della storia, Poyart si limita a una serie eccessiva di visioni a metà strada tra la suggestione biblica e l’arte contemporanea.
L’attenzione verso la confezione è tale da far passare in secondo piano anche il sottotesto dell’eutanasia che a un certo punto, da centrale, si riduce a mero pretesto per giustificare le scelte di alcuni dei protagonisti. Fortuna vuole che il cast sia di primissimo ordine e contribuisca comunque a far sì che il risultato non scada nel citazionismo fine a se stesso. Funziona in particolare Jeffrey Dean Morgan, anche in virtù del fatto che l’excursus del suo personaggio, seppure mutuato in parte da Vivere e morire a Los Angeles di Friedkin, sia l’unica trovata narrativa degno di nota. Sulle capacità recitative di Hopkins credo non ci sia davvero più nulla da dire da anni, se non che qui sono tali da far soprassedere anche su un’acconciatura da paggetto poco consona ad un uomo di quasi ottant’anni. Nulla per cui strapparsi i capelli insomma, ma neanche proprio da buttar via. Tutt’al più rubricabile alla voce “visioni da sera di pioggia”.

Voto 5

NdR: Un consiglio. Se proprio si deve prendere esempio da Seven, magari lo si faccia anche in relazione alla scelta di Fincher di non citare il nome dell’attore che recita la parte del serial killer nei titoli di testa. Capita infatti che, se quell’attore a metà film non è ancora apparso sullo schermo, lo spettatore possa anche fare due più due.

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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