The Zero Theorem

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Difficile parlare di Terry Gilliam senza affrontare, anche solo di sponda, il concetto di “fallimento”, sebbene nella più sublime delle accezioni possibili. Chi ne ha seguito le sorti artistiche sa bene quante volte all’ex Monty Python sia capitato di cadere su progetti spesso semplicemente troppo avanti sul suo tempo, ma ne conosce altrettanto bene la capacità di rialzarsi e di trasformare in arte ogni singola sconfitta.
In tal senso il lungamente atteso The Zero Theorem (fu presentato in concorso a Venezia nel 2013) rappresenta solo l’ultimo capitolo di una storia che parte da molto lontano.
Dal clamoroso tonfo de Le avventure del Barone di Münchausen che, costato 50 milioni di dollari, ne incassò solo otto, fino ad arrivare al più recente Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo, le cui riprese furono funestate dalla prematura scomparsa del protagonista Heath Ledger, il cinema di Gilliam è uno dei casi più singolari di simbiosi pressoché totale tra personaggi rappresentati – in genere dei sognatori additati come pazzi dal resto della società – e il loro autore, spirito autarchico perennemente in lotta contro un sistema colpevole, a suo dire, di frustrarne sistematicamente la sfrenata creatività in nome del ritorno economico.
Ma, vicissitudini produttive a parte, quello che realmente impressiona nel cinema di Gilliam è la coerenza apparentemente inscalfibile che, in quarant’anni, gli ha permesso di non spostarsi mai di un solo millimetro da un percorso, sia testuale che estetico, tutto incentrato sulla paura di un futuro distopico in cui l’uomo è condannato ad essere considerato sempre più come un numero piuttosto che come individuo.



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Spingendoci oltre, ogni suo film diventa così una scena di un film più grande, in cui il protagonista è sempre lo stesso – un uomo che a un certo punto decide di legittimare il proprio status di outsider, ribellandosi alle rigide regole di un destino già segnato – solo interpretato da attori diversi, proprio come accadde in Parnassus con la staffetta Ledger/Depp/Farrell/Law.
Che poi tale ribellione si consumi attraverso una naturale propensione alla follia (La leggenda del re pescatore) o con l’aiuto di sostanze chimiche (Paura e delirio a Las Vegas) poco importa. Ciò che conta è fuggire.
Ecco allora che il Qohen Leth, glabro travet chiamato a risolvere un algoritmo impossibile e interpretato (benissimo) da Christoph Waltz altri non è che la naturale evoluzione del Sam Lowry di Brazil, con la stessa macrostruttura kafkiana a regolarne dall’alto le azioni.
La solitudine che li accomuna – in entrambi i casi amplificata a dismisura dalla galleria di grotteschi personaggi che hanno attorno – ha però una sostanziale differenza. Uno scarto che crea un fondamentale ‘prima e dopo’ nella filmografia di Gilliam e che coincide con il modo in cui il sempiterno conflitto tra individuo e Sistema si risolve.
Nel futuro paventato in The Zero Theorem, infatti, la semplice ribellione non è più sufficiente. Neanche la distruzione vagamente luddista degli strambi macchinari che scandiscono con meccanico rigore i ritmi dell’esistenza può nulla contro la possibilità, via via più tangibile, che la vita sia priva del benché minimo significato.
La differenza rispetto al passato risiede dunque in un pessimismo che, per la prima volta, si fa (letteralmente) cosmico fino al punto di non postulare più alcuna via d’uscita.

E’ il pessimismo di un regista che si avvicina alle ottanta primavere con la sensazione che quella che si accinge a perdere possa non essere l’ennesima battaglia, bensì la guerra. Ed è singolare che il film si interroghi in maniera così insistita sul senso della vita, quasi tendesse idealmente a quel Meaning of Life da cui, di fatto, partì l’avventura in solitaria di Gilliam.
Letto in quest’ottica, The Zero Theorem ha addirittura il sapore dell’atto finale.
Qualora si decidesse invece di analizzarlo come singolo film, saremmo costretti a evidenziare i limiti di un progetto portato avanti a fatica, tra uno script semplice quanto confuso e un budget che non ha evidentemente permesso al regista di realizzare tutto quello che aveva in mente, o almeno non così come ce l’aveva in mente. L’impressione è quella di un film nato già vecchio, che difficilmente avrà qualcosa da dire a chiunque non riesca (per mancanza di strumenti o anche solo di volontà) a contestualizzarlo in un quadro più ampio.
In virtù di questo, a voler essere severi, il voto dovrebbe essere anche al di sotto di una sufficienza che ha più a che fare con la gioia di sapere che un genio irregolare come Terry Gilliam (di cui si raccomanda lo straordinario memoir Gilliamesque – Un’autobiografia pre-postuma) sia ancora in giro, a progettare i suoi folli mondi a dispetto delle delusioni e dell’età che avanza.
La speranza, a questo punto, è che il suo Don Chisciotte – e, in una recente intervista, lo stesso autore assicura di aver trovato sia il budget che il cast – prima o poi riesca a finirlo davvero. Quella sì che sarebbe una perfetta quadratura del cerchio.

Voto 6

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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