La battaglia di Hacksaw Ridge

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Mette molta tristezza il fatto che l’inservibile e, ahinoi, riuscitissimo rilancio fuori tempo massimo di una stella al tramonto come Mel Gibson, carnefice e vittima di un suicidio mediatico senza precedenti, abbia avuto come prima tappa la più antica rassegna cinematografica del mondo, una Mostra di Venezia in grado di presentare in sordina gli esempi più audaci e avanguardistici della cinematografia contemporanea e di esibire in pompa magna il nuovo capitolo, a un impercettibile decennio di distanza dall’ultimo delirio, del suo becero, bigotto e retrogrado vaniloquio.



Perché dietro gli elogi smodati tributati a La battaglia di Hacksaw Ridge dall’America revanscista e retriva dei nostri giorni, la sola che, in fin dei conti, poteva decretarne il successo, e confermati da quella medesima critica che, in uno slancio di presunta onestà intellettuale, portò in gloria la spazzatura propagandistica di American Sniper, si cela soltanto la trita, triviale e trionfante tribolazione cristologica, intrisa di fanatismo e di viscere a favore di macchina, che dall’exploit dietro la macchina da presa di Braveheart costituisce il canovaccio gibsoniano e che si ripresenta oggi travestita da edificante favoletta a sfondo bellico su una specie di Sergente York indifeso e misticheggiante che mise in salvo 75 commilitoni durante la Battaglia di Okinawa senza neanche sparare un colpo.

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L’unico modo che il cineasta australiano trova per dare forma all’irrisolvibile ambiguità del suo atipico eroe a stelle e strisce è infatti lo stesso utilizzato per cantare le gesta di William Wallace, di Gesù e del Zampa di Giaguaro di Apocalypto, ossia ridurre il tutto a un didascalico e sermoneggiante preambolo di episodi da abbecedario del genere (il trauma infantile, l’innamoramento, l’addestramento e il giudizio della Corte Marziale) seguito da un crescendo di insistita e compiaciuta ferocia visiva, due sezioni complementari dello stesso, rozzo immaginario lontano anni luce dall’evocato classicismo dei Ford e assai più vicino alla cafoneria dei Bay.
È come se Gibson, da autentico populista della Settima Arte qual è, si rivolgesse consapevolmente alla pancia di un pubblico abituato a un linguaggio-cinema elementare e grossolano – quello del “Make America great again”, per capirci -, convinto che sguazzare nella bassa macelleria e nel predicume sia l’atteggiamento più efficace per dimostrare le proprie tesi e per suscitare l’interesse di chi guarda.

Basterebbe anche solo l’incipit in flash-forward del film, una plongée totale su un gruppo di corpi trucidati e un pot-pourri, rigorosamente a ralenti, di soldati dilaniati dal piombo e dal fuoco contrappuntato da una voce che cita il Libro di Isaia, per rendersi conto che, dietro il pretesto pacifista dell’assunto, spunta il solito feticista del sangue di sempre, il cinico affabulatore della sevizia sicuro di poter sommergere la propria mancanza di etica “sorprendendoci con gli effetti speciali” di una rappresentazione che, invece, stupisce per approssimazione e dozzinale spettacolarità, nulla che non si sia già visto in altri saggi di ignoranza militarista come il Windtalkers di John Woo o il We Were Soldiers dell’amico Randall Wallace, di cui La battaglia di Hacksaw Ridge è sostanzialmente un rifacimento e di cui Gibson in persona fu protagonista.

E proprio al clericofascista Wallace, già co-sceneggiatore di Braveheart e di Pearl Harbor e qui responsabile della riscrittura – nonché regista inizialmente designato – si deve il tono insostenibilmente declamatorio e messianico dell’insieme, che culmina in scene madri senza vergogna, come il salvataggio del ruvido sergente Howell (un Vince Vaughn mai così posticcio e fuori parte) o il recupero della Bibbia dal campo di battaglia alternato al seppuku del generale nipponico ormai conscio della sconfitta, un’attitudine che ben si accompagna alla mano pesantissima con cui Gibson dà loro vita, un’ottica iperrealista che non lascia nulla alla sensibilità dello spettatore e che si trasforma in pura pornografia della violenza, in un tourbillon acrobatico di cadaveri che alletta gli occhi con il suo studiato disegno coreografico per poi costringerli sadicamente a chiudersi di fronte a una repentina esplosione di grand guignol.

Ha ben poco senso, quindi, tentare di giustificare con infondati alibi artistici e con una supposta perizia tecnica un cinema così impoverito, pedestre e capace di svilire tutto ciò che lo compone, a partire da un soggetto ricco di spunti lasciati cadere e da un cast sfruttato al peggio delle sue potenzialità (si stenta a riconoscere nello pseudo-Forrest Gump smorfiosetto e bamboleggiante di Andrew Garfield l’interprete maturo e misurato di Silence), un cinema così disgustosamente fascista non nella sua discutibile ma ammissibile presa di posizione ideologica – la stessa che, adottata da acclarati reazionari come Cimino o Milius, trascendeva il discorso politico e si traduceva in poetica -, ma nel suo farsi sguardo, oppressivo, inequivocabile e proselitistico sulle storie che intende raccontare, un cinema – che noi, a Venezia, avevamo definito con malaugurata lungimiranza “il biglietto da visita dell’Era Trump” – in difesa di una guerra che (ancora?) non esiste e che si configura come quanto di più pericoloso e corrotto il cinema statunitense abbia attualmente da offrire.

Voto 3

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