Falchi

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Falchi, terzo film di Toni D’Angelo (o quarto, volendo considerare anche il documentario Filmstudio Mon Amour) è un’opera paradigmatica pur nel suo non essere riuscita.
Oltre infatti a giocarsi la carta del genere, azzardo che in Italia non sempre paga, attraverso la parabola di caduta e redenzione di due stropicciatissimi poliziotti bloccati al confine tra legalità e crimine – i cosiddetti Falchi appunto, sezione speciale della Squadra Mobile nata negli anni Settanta per fronteggiare il fenomeno della criminalità – la pellicola rilancia l’idea di Napoli come archetipo definitivo di città noir, sebbene quella mostrata qui non somigli affatto alla città iperstilizzata e pop di Gomorra – La serie.
D’Angelo opta al contrario per un’estetica più documentaria e, così facendo, commette il primo degli errori che allontanano il suo film da tutto ciò che di buono poteva essere. Perché al realismo dell’impostazione visiva non fa corrispondere un’adeguata controparte testuale, settata invece su dialoghi viziati da un fastidioso eccesso di vis drammaturgica.



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Perché Peppe (Fortunato Cerlino) e Francesco (Michele Riondino) sono sì due ruvidi sbirri in borghese abituati a muoversi tra le pieghe della legalità, ma – ahinoi – parlano e si esprimono in modo non dissimile dai personaggi di una qualsiasi fiction televisiva di area parapoliziesca. In buona sostanza i due si limitano a “fare i duri”, ma si vede che recitano.
E il problema principale di operazioni di questo tipo si verifica proprio quando i personaggi narrati si avvicinano più ad una dimensione letteraria – o, peggio, teatrale – che non di strada. In totale antitesi col meccanismo di sospensione della realtà, lo spettatore deve infatti credere che quanto vede sullo schermo possa accadere anche nel mondo reale, più o meno allo stesso modo in cui è necessario che, guardando un villain, abbia davvero paura di poterlo incrociare di sera tornando a casa.
In tal senso il modello dal quale non si può prescindere nella maniera più assoluta quando si decide di ambientare una crime story a Napoli è proprio la succitata serie tratta da Gomorra, di cui D’Angelo però eredita solo uno dei protagonisti, Fortunato Cerlino.

Ed è un peccato perché il giovane regista ha sia i referenti giusti che lo stile (certe inquadrature tradiscono in maniera evidente l’apprendistato sui set di Abel Ferrara) e, in termini di atmosfere, azzecca anche più di un richiamo al cinema action di scuola hongkonghese. Falchi insomma parte bene, forte anche di un inseguimento in moto in pieno centro.
Poi qualcosa si incrina e la descrizione di queste due anime perse, guastate nel profondo dagli effetti di lungo termine di un lavoro difficile e da alcuni sensi di colpa che atterrerebbero chiunque prende il sopravvento su un plot poliziesco già esile di suo (curioso come al centro di tutto ci sia un cane, leitmotiv di molto noir contemporaneo, da John Wick a Chi è senza colpa) che viene progressivamente annacquato dai troppi primi piani dei protagonisti intenti a palesare le loro pene interiori.
A quel punto il sospetto che Falchi possa in realtà essere il più classico dei film intimisti soltanto travestito da serie B si fa definitivamente largo e non abbandona più lo spettatore, neanche quando scatta l’ovvia liason tra un Riondino per nulla avvezzo alle ‘conseguenze dell’amore’ e la povera prostituta/schiava cinese.

Voto 5

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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