Ghost in the Shell

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La prima domanda che ci si pone guardando questo Ghost in the Shell è relativa a quanti dei giovani a cui sostanzialmente è indirizzato conoscano o abbiano anche solo mai sentito parlare dell’anime dal quale il film trae origine. E di come, tra la fine degli anni ottanta e l’inizio del decennio successivo, questo abbia contribuito, insieme al fondamentale Akira di Katsuhiro ?tomo, a spostare l’asse del rapporto ‘uomo-macchina’ nello sci-fi da una dinamica conflittuale di totale antitesi su nuove coordinate che al contrario contemplassero la fusione, sebbene problematica, tra l’uno e l’altro.
Ce lo si chiede non tanto per fare i cinefili pedanti, quanto per capire le reali possibilità attrattive di una storia che affonda le sue radici tematiche così lontano nel tempo, presso un pubblico contraddistinto da una memoria di lungo periodo pressoché nulla.
D’altro canto l’Oriente è un mercato sempre più fondamentale per l’economia hollywoodiana e i passi da gigante fatti dall’industria robotica negli ultimi dieci anni rendono, in ogni caso, l’argomento – un futuro in cui gli ibridi tra uomo e macchina sono ormai all’ordine del giorno – suscettibile di attualità.
Il Maggiore (Scarlett Johansson) è infatti il primo robot ad essere dotato di un cervello umano. Salvata da un attacco terroristico, la donna è stata in breve tempo trasformata in una macchina da guerra del tutto devota alla lotta contro il crimine. Quando il cyberterrorista Kuze (Michael Pitt) acquista la possibilità di entrare nelle menti umane ed hackerarle, il Maggiore si dimostra l’unica arma utile a contrastarlo.
Fino a quando capisce che i ricordi che, di tanto in tanto, disturbano il flusso regolare dei suoi pensieri, non sono errori di sistema ma tracce di un passato che il Governo ha tutto l’interesse a non far tornare a galla.



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Caratteristica imprescindibile dell’originale Ghost in the Shell era la sua capacità di elaborare un immaginario – distopico come pochi – che non contemplasse per forza una spiegazione a tutto. In altre parole si faceva della mancanza di chiarezza una virtù.
Ecco,  il primo switch tra quel film e l’odierna rielaborazione di Rupert Sanders (a cui la tresca con Kristen Stewart deve essere costata piuttosto cara se il suo ultimo film, Biancaneve e il cacciatore, pietra dello scandalo, risale al 2012) è nel fare in modo che ad ogni domanda corrisponda una risposta ben precisa.
Il risultato è una relativa perdita del fascino criptico di un’opera che si interrogava con profondità inusuale, per un prodotto destinato comunque a intrattenere, su questioni filosofiche ed esistenziali che sarebbero state la base su cui i fratelli (all’epoca) Wachowski avrebbero fondato l’intero impianto strutturale del loro Matrix.
Ciò che invece rimane invariata è la componente estetica che rendeva l’anime di Mamoru Oshii (e il manga di Masamune Shiro da cui era tratto) un capolavoro e fa di questo remake una delle cose visivamente più sbalorditive viste al cinema negli ultimi tempi.
Al netto di un utilizzo del 3D sempre meno significativo, Sanders forza i limiti che la natura industriale del progetto in qualche modo gli impone e riesce a trovare una via poetica al profluvio di effettistica utilizzata.

In più c’è l’elemento erotico, assicurato da una Scarlett Johansson – le critiche all’utilizzo di un’attrice occidentale le lasciamo volentieri ai feticisti di un’ortodossia “etnica” che al cinema, più che altrove, non ha ragione di esistere – fascinosa anche nel più mascolino dei ruoli da lei interpretati finora. Il suo nudo digitale è, in tal senso, una sfida sensoriale non lontana da quella affrontata in Her con la sola voce.
Mirabilie visive a parte, se Ghost in the Shell mostra delle lacune è più che altro dal punto di vista della scrittura.
La tendenza insistita a spiegare troppo di cui dicevamo poc’anzi genera infatti una parte centrale in cui il ritmo rallenta e, in più di un’occasione, si affaccia la noia.
Fortuna vuole che il film duri “solo” due ore e, sul finale, Sanders si giochi le sue carte migliori, con un epilogo di tale forza estetica da far soprassedere su certi limiti.
Limiti che hanno a che fare anche con un cast poco nutrito che, protagonista a parte, trova i suoi unici motivi di interesse in una inedita (e bellissima) Juliette Binoche in versione blockbuster e in Takeshi Kitano. Ogni scena in cui “Beat” Takeshi appare sullo schermo è un meraviglioso cortocircuito semantico in cui il suo cinema migliore irrompe in questa apocalittica metropolis futurista e, inaspettatamente, ha la meglio.
In sintesi la sensazione è che a Ghost in the Shell manchi qualcosa ed, essendone consapevole, sopperisca alle proprie tare con la tecnologia. Proprio come i suoi personaggi cercano di superare i propri limiti fisici attraverso innesti robotici.

Voto 6,5

 

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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