Insospettabili sospetti

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La prima cosa a saltare all’occhio di questo Insospettabili sospetti – remake di quel Vivere alla grande che, nel 1979, dava inizio alla carriera di Martin Brest – è quanto poco o nulla ci sia dentro della sensibilità indie di Zach Braff, che i più forse ricorderanno solo come protagonista dell’esilarante serie TV Scrubs mentre in passato è stato autore di due gioiellini di culto come La mia vita a Garden State e l’inedito Wish I Was Here. Ben più visibile è invece la mano dello sceneggiatore Theodore Melfi che qui riprende il tema della terza età già toccato in St. Vincent e vi innesta un plot tutto basato, come nel suo recente e acclamato Il diritto di contare, sull’improbabile riuscita di un’impresa da parte di personaggi ancora più improbabili. In questo caso, al posto delle tre ingegnere afroamericane nell’America segregazionista, troviamo tre anziani pensionati alle prese con una rapina in banca. Del resto i recenti (ed entrambi pessimi) Last Vegas e Nonno scatenato hanno ampiamente dimostrato, almeno negli States, l’appeal di certa commedia geriatrica su una discreta fetta di pubblico.



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Ma, anagrafe dei tre protagonisti a parte, sarebbe comunque un errore accomunare il film di Braff ai titoli citati poc’anzi così come agli esempi più beceri di quello che, ormai, ha assunto le fattezze di un vero e proprio genere, considerando anche che chi scrive cerca tuttora di scacciare dalla memoria il ricordo di Al Pacino che, in Uomini di parola, fa incetta di Viagra.
Insospettabili sospetti si apre infatti all’interno di una banca, in cui uno spaesato Joe (Michael Caine) non solo riceve conferma dell’avvenuto congelamento della pensione maturata in quarant’anni di duro lavoro, ma apprende anche del rischio che, a breve, gli pignorino casa.
Dopo essere stato testimone di una rapina, l’uomo decide dunque di organizzarne una a sua volta così da scongiurare la crisi, coinvolgendo gli amici di sempre Willie (Morgan Freeman) e Albert (Alan Arkin).
Appare ovvio come il fulcro tematico dell’opera non sia semplicemente il senso di inadeguatezza di fronte a un oggi che non si è in grado di comprendere appieno – come, ad esempio, ne Lo stagista inaspettato di Nancy Meyers – quanto l’impatto con una realtà che, quasi da un giorno all’altro, ha rimpiazzato il mito delle grandi possibilità e del self-made man con un “nuovo ordine mondiale” dove a decidere delle sorti dei meno abbienti non sono più i governi bensì l’austera impersonalità di un istituto bancario.

E, sebbene il film si mantenga sempre su un registro leggero, ha se non altro il merito di non sconfinare mai nello humour di grana più grossa.
A questo preferisce la malinconia nello sguardo di Joe, preoccupato all’idea di non poter più prendersi cura della figlia con un divorzio alle spalle e figlioletta a carico o in quello di Willie, che avrebbe bisogno di un rene nuovo ma, vista l’età avanzata, è ultimo nella lista dei trapianti.
Ed è proprio l’aspetto più crepuscolare a convincere maggiormente in un film che, quando preme sull’acceleratore della commedia, sembra invece perdere qualche colpo.
Se si eccettua la trovata delle maschere del Rat Pack indossate dai tre durante la rapina, sincero omaggio a quell’Ocean’s 11 (l’originale del ‘60, non il remake di Steven Soderbergh) precursore di tutti gli heist movie, il resto è per lo più ordinaria amministrazione che scorre su meccanismi perfettamente oliati, oltre a poggiarsi sulla consumata bravura dei suoi attori protagonisti.

Voto 6

 

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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