Venezia74 – Giorno 1

Di Andrea Bosco
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Visti gli exploit internazionali dei concorrenti statunitensi delle scorse edizioni, anche quest’anno la Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia continua la sua opera di promozione di un certo cinema a misura di Academy, lasciandosi definitivamente alle spalle quella produzione periferica e controcorrente che nel pieno dell’Era Müller aveva visto la delegazione a stelle e strisce, salvo rare eccezioni, in netto svantaggio qualitativo rispetto alla concorrenza asiatica ed europea.

Dopo GravityBirdman e La La Land, è Downsizing di Alexander Payne il cavallo di razza su cui puntano le speranze della direzione Barbera, un ulteriore autore di comprovata fama internazionale da lanciare come apripista di una stagione ricca di riconoscimenti. C’era molta curiosità, insomma, nei confronti del debutto lidense di quel cantore della provincia strappato, una volta tanto, alla line-up della Croisette, ma i presupposti di un sicuro trionfo si sono presto risolti in un’accoglienza tiepida e nella consapevolezza di trovarsi di fronte a un lavoro sostanzialmente minore, tanto nel corpus del cineasta di Omaha, quanto nel novero delle felicissime aperture veneziane recenti.



Sembra essere rimasto poco, infatti, di quel sardonico cantastorie di quella America profonda che, da piccola in senso lato, stavolta si fa, di fatto, minuscola: la ridicola utopia concepita da Payne e dal sodale Jim Taylor, l’immagine molto puntuale di una superpotenza che fugge dalla realtà ricorrendo a un fantascientifico processo di miniaturizzazione, mantiene tutti gli elementi cardine della poetica dell’autore di Election e di Nebraska e offre ancora una volta l’occasione per uno sguardo genuinamente satirico sulle storture e sulle quotidiane mostruosità della classe media USA.

Le ambizioni, tuttavia, crescono di pari passo con la scelta di glissare sugli aspetti più problematici e interessanti, riducendo la storia dell’inetto travet Paul Safranek (un Matt Damon quanto mai incarnazione dell’uomo qualunque) a una semplice, edificante parabolina di autocoscienza, una lezioncina edificante e moraleggiante sulla necessità di fare la differenza e di confidare nei sentimenti in una civiltà sull’orlo dell’Apocalisse imminente; ampliando la sua ottica a una prospettiva più universale e generalizzata, Downsizing perde progressivamente mordente e finisce così per dire molto poco sullo stato delle cose degli Stati Uniti di oggi, un Paese, come restituiscono le fenomenali scenografie di Kimberley Zaharko, barricato nelle proprie laccate, plastificate case di bambola.

E se i macchiettoni di Christoph Waltz e di Udo Kier fungono comunque efficacemente da alleggerimento comico, sorprende che, una volta tanto, nel bagaglio umano di un acclarato misogino come Payne il fulcro emotivo e l’ago della bilancia del tutto sia una donna, la colf vietnamita Gong Jiang (la semiesordiente Hong Chau, un’autentica rivelazione), dimostrando una sensibilità e un affetto per i suoi personaggi che da lui forse non ci si aspettava.

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E a proposito di donne, il livello si mantiene nella media grazie alla buona riuscita dell’opera terza di Susanna Nicchiarelli, che si ripresenta sulla scena dopo l’inevitabile disastro de La scoperta dell’alba: alzando considerevolmente il tiro rispetto alle sue due fatiche precedenti, con Nico, 1988 la regista di Cosmonauta si mette totalmente al servizio di una delle figure più anticonformiste e geniali del cantautorato europeo, conosciuta dai più solo come ospite di lusso dell’esordio dei Velvet Underground, ma in realtà esempio purissimo, totalmente privo di epigoni, di un’arte musicale apolide lontana anni luce dai canoni della scena rock dell’epoca.

Aderendo ai modelli tradizionali del biopic e concentrandosi sui suoi ultimi tre anni di modesta, defilata attività prima dell’incidente ciclistico di cui rimase vittima ad appena 49 anni, la Nicchiarelli non indulge al bozzettismo e all’aneddotica, ma si affida alla descrizione puntuale e sfaccettata di un carattere in guerra non solo con quello status di icona e con quella museificazione che avevano pregiudicato la sua carriera, ma anche con i propri fantasmi interiori, come il decadimento fisico che la portò, da modella warholiana e chanteuse di lusso che fu, all’irriconoscibilità, i decenni di tossicodipendenza e, soprattutto, il legame negato con il figlio Ari, avuto illegittimamente da Alain Delon.

È vero che molte caratterizzazioni di contorno, anche per via della scelta di fare riferimento solo di rado a personaggi realmente esistiti, sono appena appena abbozzate e pescano nel mucchio della fauna del cinema musicale tradizionale (il chitarrista tossico irrecuperabile, il tour manager paterno, l’agente acida), che i quasi surreali segmenti in flashback sono un’aggiunta superflua e che il film, paradossalmente, ricorra troppo poco e male al prezioso e assai poco prolifico repertorio discografico di Nico – appena 8 brani (di cui 3 cover) tutti ricantati e risuonati ex novo, penalizzati dagli arrangiamenti modaioli e incongruenti dei Gatto Ciliegia contro il Grande Freddo – ma i difetti sono ampiamente riequilibrati dalla prestazione trasformistica di un’impressionante Trine Dyrholm, perfetta a ricalcare l’allure decadente e teutonico della Paffgen e, ancor meglio, a replicare i toni marmorei e profondissimi della sua voce.

Un salto internazionale, nel male e ancor più nel bene, assolutamente riuscito, dunque, capace di misurarsi con grande considerazione e senza facili agiografie con una personalità che meritava da tantissimi anni una legittima riscoperta.

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Pochissimo da dire, invece, su The Devil and Father Amorth di William Friedkin, maldestra operazione autoreferenziale con cui l’autore de L’esorcista affronta a viso aperto e senza accorgimenti finzionali, riprendendo in esclusiva una seduta del celebre presbitero romano, il rito cattolico che, nel suo capolavoro, aveva dovuto mettere in scena affidandosi esclusivamente alla propria fantasia: il tono, però, è quello sensazionalistico ed effettistico della puntata media di una qualsiasi trasmissione parascientifica à la Voyager, allungata inutilmente dagli interventi da teleimbonitore dello stesso Friedkin, tornato sui luoghi delle riprese di allora, da inconcludenti interviste a psichiatri sconcertati dall’inspiegabilità dei fenomeni paranormali e da inserti di massima confusione (uno su tutti, il successivo incontro del regista con l’indemoniata seguita da Amorth).

Nulla di più di una curiosità dai parametri artistici praticamente nulli, buona forse come featurette di una riedizione in Blu-Ray dell’opera capostipite, ma che inserita in pompa magna nel programma della Mostra suona totalmente fuori luogo.

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