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“Sometimes history is best viewed through a lens” – Steven Spielberg

 

Trenta lungometraggi all’attivo, di cui soltanto dieci ambientati nel contemporaneo e, il più delle volte, attraverso una trasfigurazione fiabesca o fantascientifica che rende qualsiasi parametro cronologico totalmente ininfluente: il passato è da sempre una componente fondamentale del cinema di Steven Spielberg, tanto nella sua funzione escapistica (gli esempi recenti di Prova a prendermi e de Le avventure di Tintin, per non parlare della quadrilogia di Indiana Jones) quanto nei suoi propositi didattici (le lezioni di Storia de Il colore viola, di Schindler’s List e di Amistad), una verità certificata, un compartimento stagno, un porto sicuro a cui fare ritorno per sfuggire all’indefinitezza e alla confusione della modernità.

 

È un’altra, però, l’attitudine dello Spielberg dei giorni nostri, non più quella dell’inguaribile nostalgico o del coscienzioso educatore che fu, bensì quella del maturo commentatore sociale in grado di accorciare le distanze fra attualità e rievocazione, di individuare nell’ambito del presente le cicliche ricadute di ciò che è stato, di porre in corrispondenza le circostanze di ieri con le contingenze di oggi, a tanti anni da quel primo tentativo, incompreso e spericolato, che fu il suo 1941 – Allarme a Hollywood, nel quale il senso di scombussolamento di un’America sopravvissuta a stento all’incubo vietnamita si traduceva in un’isterica farsa dell’assurdo a ridosso dell’attacco di Pearl Harbor: ecco, dunque, nel giro di un decennio, una riflessione amarissima sulle ambiguità della lotta al terrorismo innescata dagli attentati dell’11 settembre posta in parallelo alla rappresaglia israeliana successiva al massacro olimpico di Monaco 1972, un promemoria e un appello alla responsabilità all’amministrazione Obama, appena rieletta, chiamata al confronto con le sfide di civiltà della presidenza Lincoln e un elogio della ragione umanistica come antidoto al clima di tensione internazionale di una Guerra Fredda 2.0 attraverso uno dei casi più emblematici della prima.

 



 

Non fa eccezione il raffronto fra gli Stati Uniti del pre-Watergate e quelli, odierni, della post-verità su cui si fonda la ragion d’essere di The Post, ideale conclusione di quella trilogia civica aperta da Lincoln e proseguita con Il ponte delle spie che il regista di Cincinnati ha dedicato alla forza della parola, non più – a differenza delle pellicole precedenti – strumento di diplomazia e mezzo di compromesso fra il singolo e le istituzioni, ma una manovra (contr)offensiva, anzi, un atto di eversione nei confronti di una realtà politica basata sulla menzogna e guidata dalla vanità: la campagna portata avanti dallo staff del Washington Post, capitanato dal direttore Ben Bradlee (Tom Hanks) e dall’editrice Katherine Graham (Meryl Streep), per la divulgazione dei segreti governativi dei Pentagon Papers funge quindi da pretesto a Spielberg per la prima autentica dimostrazione di militanza di tutta la sua carriera, un compito da assolvere, come attestano i nove mesi scarsi intercorsi fra l’annuncio del progetto e la conclusione della post-produzione, con l’impellenza e la premura dell’instant movie.

 

Come nel caso della Battaglia di Jenkins’ Ferry che fa da fulmineo prologo a Lincoln e dell’abbattimento del Lockheed nei cieli di Ekaterinburg da cui si dipanano le trame de Il ponte delle spie, è sufficiente uno squarcio di pochi minuti per inquadrare le coordinate storiche degli eventi: un fallimentare scontro come tanti in una provincia a pochi chilometri da Saigon, sintesi e raffigurazione di tutta l’inutilità dell’impegno militare contro le truppe di Ho Chi Minh, che apre la strada al vero conflitto alla base del film, ossia quello fra la libertà di espressione e la sicurezza di Stato, che l’autore di Salvate il soldato Ryan imbastisce con più sfumature e zone d’ombra del solito, evidenziando più volte quel legame di benevola connivenza fra il potere e la sua cronaca e ponendo i suoi personaggi di fronte a un trascorso, se non di complicità, quantomeno di indulgenza da cui riscattarsi.

 

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Non si mette in dubbio, pertanto, la sincerità dei presupposti del cineasta statunitense, ma non si può fare a meno di notare quanto la classicità della sua messa in scena, efficacissima quando si tratta di indagare le psicologie dei suoi protagonisti e di rimarcarne rapporti e gerarchie in relazione con lo spazio in cui si muovono – basti solamente vedere il modo in cui la presenza strabordante di Hanks e la figura defilata della Streep si invertono progressivamente di ruolo all’interno del quadro -, si incagli in alcune soluzioni semplicistiche e negli abituali trappoloni dell’enfasi.

 

Così, a momenti da manuale come la prima conversazione al ristorante fra Bradlee e la Graham, risolto con un ipnotico rimpallo di lente panoramiche laterali che si arrestano con un lungo frontale centrato e in profondità di campo o la vertiginosa sequenza, praticamente una danza di punti e di movimenti macchina, della teleconferenza che sancisce la pubblicazione dell’articolo, si alternano scelte registiche più grossolane, a cominciare dalla rappresentazione di Nixon, minacciosa silhouette nera gesticolante immortalata come un villain da fumetto, digressioni ridondanti ad alto tasso di saccarina, come la lacrimosa confessione della Graham alla figlia (Alison Brie) e la presa di coscienza della moglie di Bradlee (Sarah Paulson), o scivoloni nella facile retorica (il tronfio prefinale con la convocazione presso la Corte Suprema, cui pure non giovano le ampollose sviolinate del consueto John Williams).

 

Sono cadute in dirittura di arrivo che affliggono da sempre il cinema di Spielberg persino nelle sue manifestazioni più controllate – si pensi anche solo all’epilogo di Lincoln – ma che questa volta inficiano poco l’equilibrio di un’opera pienamente riuscita sul piano formale, fra lunghi pedinamenti in steadicam nei meandri della redazione e un’attenzione quasi feticistica ai dettagli del processo di stampa che non si vedevano dai tempi di Park Row (ed è proprio nella foga del capolavoro dimenticato di Fuller, più che nel rigore geometrico di Tutti gli uomini del Presidente di Pakula, che viene da riconoscere la principale ispirazione di The Post), fra intuizioni visive capaci di esprimersi in maniera assai più eloquente di qualsiasi sottolineatura di sceneggiatura, come la cesura netta, anche nella stessa ripresa, che separa la dimensione maschile delle stanze del comando da quella femminile dei salotti, e un senso del ritmo insospettabile per ciò che, di base, è un dialogico duello di coscienze.

Viene spontaneo pensare, se si considerano l’uscita imminente di Ready Player One, la messa in cantiere del quinto capitolo della saga di Indiana Jones e l’intenzione sempre più concreta di realizzare un rifacimento di West Side Story, che lo Spielberg dei prossimi anni prenderà una direzione diametralmente opposta e improntata al puro disimpegno: teniamoci stretto, quindi, un film meno calibrato e compatto dei precedenti, ma di cui va comunque riconosciuta e difesa la viva e puntualissima urgenza.

 

Voto 7

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