Dogman

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Dogman

Senza alcun dubbio, per Matteo Garrone,Dogman rappresenta un doppio ritorno alle origini. Non solo a quella forma di intimismo malato che illumina di dipendenza e sinistro disagio tutta la sua filmografia pre-Gomorra, ma anche al livido limbo geografico dove aveva già ambientato L’imbalsamatore. In particolare lo spostamento dell’azione da quella Magliana così indissolubilmente legata all’efferata vicenda alla quale il film si ispira alla piatta desolazione di una Castel Volturno stilizzata fino a diventare un vero e proprio luogo dell’anima, è utile all’autore per allontanare subito nello spettatore il dubbio che Dogman possa limitarsi a essere una “semplice” ricostruzione di un tristemente noto fatto di cronaca nera. Perché la vera storia del Canaro qui funge solo da sfondo– così come il cacciatore di anoressiche in Primo amore–su cui dipingere un affresco di umana miseria talmente spaventoso nel suo ricordare la realtà da intravedere la propria unica via di fuga  in una dimensione onirica a metà strada tra il sogno di un fondale caraibico e l’incubo di una vendetta che, per quanto atroce, non potrà mai riparare ai torti subiti.



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E il toelettatore di cani Marcello (Marcello Fonte) di torti ne ha subiti davvero troppi. Per lo più da Simone (un Edoardo Pesce straordinario, inquietante al punto da essere relegato quasi sempre ai margini dell’inquadratura), ex-pugile e bullo locale che maltratta e taglieggiai negozianti del quartiere con la becera arroganza del “qua comanno io!”. Marcello ha con quest’ultimo un rapporto di tale sudditanza che lo spinge ad andare anche contro la propria coscienza pur di assecondarlo. Che si tratti di fornirgli cocaina gratis o di fare il palo durante un colpo in un appartamento, semplicemente Marcello non riesce a dirgli di no. Non ci riesce nemmeno quando Simone gli comunica di aver bisogno del suo locale per farci un buco e rapinare il “compro oro” accanto. L’acquiescenza di Simone lo porta addirittura a farsi un anno di galera per quel crimine. Solo quando, appena uscito di prigione, si sente negare anche il diritto a una parte della refurtiva, qualcosa in Marcello si incrina. E il rapporto tra vittima e carnefice si finisce inevitabilmente per ribaltarsi.

È un film tesissimo e potente Dogman che – proprio come Cane di paglia e Un borghese piccolo piccolo, ai quali fin da subito viene da accostarlo – sfrutta il linguaggio del revenge movie per parlare di altro. Di una vendetta che non è solo una faccenda personale, bensì il tentativo disperato di riscatto da parte di un uomo che, per un attimo, sente di poter aggiustare il mondo. Un mondo così assuefatto ai codici della violenza e della reciproca prevaricazione da equiparare il concetto di gentilezza a quello di debolezza.Va da sé che uno scenario così cupo basti e avanzi, senza alcun bisogno di esagerare nelle efferatezze che la cronaca dell’epoca ci riportò ampiamente. Garrone non solo alleggerisce la storia da tutti i suoi aspetti più marcatamente gore ma, nel tentativo di allontanare ancor di più il film dalla cronaca, ne sposta temporalmente gli eventi ai giorni nostri. Perché la storia di Marcello è prima di tutto una parabola cristologica, suggerita già solo dall’amore del protagonista per i cani e poi resa evidente, verso la fine, in quel suo caricarsi il cadavere di Simone sulle spalle, quasi fosse una croce. Tutto intorno resta solo il silenzio. E lo sguardo spaurito di Marcello Fonte, eccezionale nel suo abitare un personaggio che forse non avrebbe potuto essere interpretato da altri, in un’opera che gronda letteralmente cinema da ognuna delle sue inquadrature e si prenota fin da adesso un posto tra i film migliori di questo 2018.

Voto 8

 

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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